Omelia (03-10-2003) |
padre Lino Pedron |
Commento su Luca 10,13-16 Le città di Corazin, di Betsaida e di Cafarnao erano i luoghi nei quali Gesù aveva sviluppato, più che altrove, la sua attività. Di questa attività vengono messi in particolare rilievo i miracoli, nei quali si era manifestata la potenza divina di Gesù. Il centro dell'attività di Gesù era Cafarnao, la "sua città" (Mt 9,1). Ad essa, come alle altre due città, aveva offerto salvezza, potenza e gloria. Ma esse non hanno corrisposto. Gesù sa che Tiro e Sidone, le due città pagane ritenute il centro del materialismo e dello sfruttamento dei poveri (cfr Is 23,1-11; Ez 26-28), avrebbero fatto penitenza se avesse compiuto in esse i miracoli compiuti a Corazin, a Betsaida e a Cafarnao. L'esclamazione "Guai a te!" non è una minaccia, ma un grido di compianto e di lamento, "ahimè!" (cfr Lc 6,24ss). E' il dolore di Dio per il male dell'uomo, il dolore dell'Amore non riamato. La pena del giudizio non è "Guai a te!", ma "Guai a me per te". Diventa infatti la croce di Cristo, che è l'"ahimè!" di Dio per l'uomo. In sé il rifiuto, come ogni altro male, non è direttamente contro Dio, ma contro chi lo rifiuta e così fa il proprio male. Ma come il male dell'amato tocca profondamente chiunque ama, così il male dell'uomo tocca infinitamente il cuore di Dio, perché egli ama l'uomo in modo infinito. Per questo il peccato provoca il lamento e la sofferenza reale di Dio. La croce di Cristo esprime insieme la serietà del suo amore e la gravità del nostro male. Il vero amore, quando non è amato, non minaccia. Non può che lamentarsi e morire di passione. La passione di Dio è infinita come il suo amore. Da questo si può capire la libertà, ma anche la tremenda responsabilità di rifiutare la salvezza offerta da Dio. Ma, ancor più, il giudizio del rifiuto e il male che ne consegue non ricadono su di noi, ma su di lui che continua ad amare e ad offrirsi, senza lasciarsi condizionare dal nostro rifiuto e dalla durezza del nostro cuore. Infatti "il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui" (Is 53,5), e "colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio" ( 2Cor 5,21), e ancora "Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi" ( Gal 3,13). Questo "ahimè!" di Dio è il più forte annuncio della salvezza e non, come qualcuno erroneamente crede, la minaccia della dannazione eterna. Gesù non condanna Corazin, Betsaida e Cafarnao, ma vuole far comprendere loro la grandezza del dono d'amore che esse hanno rifiutato, perché si ravvedano e l'accolgano. Il fine di ogni parola di Dio all'uomo non è la condanna, ma la conversione. La missione ha il suo principio e la sua sorgente nell'amore del Padre, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità (cfr 1Tm 2,3-4). Egli ha mandato il suo Figlio per la salvezza del mondo (cfr Gv 3,16). Come Gesù è l'apostolo del Padre, così anche noi siamo gli apostoli di Gesù, designati a continuare la sua missione di salvezza. Nei suoi messaggeri è presente Gesù e in Gesù è presente il Padre. La parola detta dai messaggeri, quando parlano secondo il vangelo, è la parola di Gesù e, in definitiva, la parola del Padre: "Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato" (v.16). Esiste una catena inscindibile tra i messaggeri, Gesù e il Padre. Per la sua mediazione verso il popolo Gesù si serve dei messaggeri. L'uomo viene condotto a Dio dall'uomo. Tra i due atteggiamenti, ascoltare o disprezzare, non esiste una via di mezzo. Nessuno può restare indifferente di fronte alla parola di Dio. Chi non è con Gesù, è contro di lui. Chi non osserva la sua parola, la rifiuta e la disprezza. L'annuncio del regno di Dio è la forma più alta di testimonianza cristiana, perché associa alla passione di Cristo: ci espone insieme con lui, inviato a testimoniare l'amore del Padre, al rifiuto, alla persecuzione e alla croce. |