Omelia (30-11-2025)
don Alberto Brignoli
La prontezza dell'attesa

Il tempo di Avvento che oggi iniziamo è un tempo di preparazione, durante il quale intensifichiamo le nostre pratiche di fede in vista del Natale ormai vicino; ma soprattutto, è un tempo di "attesa".
Che cosa significa "stare in attesa"? Attendere, aspettare qualcosa o qualcuno, non ha sempre il medesimo significato, perché ci sono molti modi di rimanere "in attesa". Alcune attese sono ben note: una mamma in attesa di un bambino sa bene quanti mesi deve durare questo momento; un cuoco alle prese con la cottura di un piatto in forno, sa per certo quando durerà la sua attesa, perché deve programmarla; il conto alla rovescia sulla rampa di lancio di una navicella spaziale è attesa dagli astronauti con cronometrica precisione. Molte altre attese, invece, hanno tempi non calcolabili: quando, durante una telefonata a un qualsiasi call-center di una struttura sanitaria, veniamo messi "in attesa", non sappiamo mai fino a che ora dobbiamo mettere in vivavoce continuando, nel frattempo, a fare le nostre faccende di casa; chi sta sveglio tutta la notte ad attendere il figlio o la figlia usciti per la serata con gli amici, magari - da buoni svampiti - senza aver preso le chiavi di casa, inutilmente può cercare di accorciare l'attesa con chiamate o messaggi, perché difficilmente avrà una risposta; il giocatore che si trova in panchina e smania dalla voglia di entrare in campo non può avere la certezza di quanto possa durare la sua attesa, perché il suo ingresso in campo dipende dalle scelte del "mister", in base a come si mette la partita.
Per non parlare dei sentimenti che accompagnano l'attesa, anch'essi differenti e per certi aspetti non facilmente quantificabili. Ci sono attese piene di entusiasmo, perché proiettate a un evento gioioso come la nascita di un bambino, e ci sono attese cariche di ansietà, che si vorrebbero evitare, perché l'epilogo dell'attesa è fin troppo chiaro ed evidente, come quando un malato affronta la fase finale di una malattia incurabile, spesso affrontata nella più totale solitudine...
Quando si attende qualcosa o qualcuno, ci si agita, si freme, si gioisce, ci si dispera, ci si rassegna. E non possiamo affidare questi sentimenti alla fede, perché hanno invaso e continuano a invadere anche la vita dei credenti di ogni tempo. Questo avveniva soprattutto tra le primissime comunità cristiane, quelle in cui, spesso, c'era ancora in vita qualcuno che aveva conosciuto Gesù di persona: e questi sentimenti erano dettati dall'attesa del suo ritorno nella gloria, alla fine dei tempi, che lui stesso aveva annunciato senza tuttavia definire "quando". Era proprio l'ignoranza riguardo al suo ritorno a suscitare nei suoi seguaci sentimenti contrastanti: c'era chi riteneva il suo ritorno talmente imminente da non avere il tempo di prepararvisi adeguatamente, per cui viveva in uno stato di perenne agitazione, dando ascolto a chiunque pretendeva di mostrarsi come il Messia, oppure interpretando i fatti della storia come preludio immediato al suo arrivo; c'era chi, per contro, questo ritorno imminente lo attendeva con gioia, perché avrebbe così posto fine a tutte le sofferenze, sue e dell'umanità intera; e c'era chi, convinto che il ritorno del Signore fosse ancora molto lontano, viveva la propria vita con indifferenza, a prescindere da tutto e da tutti, pensando solo a godersela e spassarsela perché, tant'è, la vita è una, e quindi "chi vuole esser lieto, sia di doman non c'è certezza!", come scriverà Lorenzo il Magnifico alla fine del XV secolo.
Questi sentimenti pervadono la vita dei credenti in ogni epoca, anche nella nostra, dove, forse, non c'è l'attesa per il ritorno imminente del Signore, ma sicuramente ci si pone delle domande sul senso finale dell'esistenza e sul senso di quello che facciamo, soprattutto quando ne sperimentiamo la precarietà. E allora, anche le nostre risposte e gli atteggiamenti che ne scaturiscono possono essere come quelli che abbiamo descritto: e io credo che il Vangelo di oggi (tratto dall'opera di Matteo, che ci accompagnerà in questo anno liturgico), sia pur nella drammaticità di certe sue affermazioni, ci possa dare delle chiavi di interpretazione su come condurre la nostra "attesa".
Anche noi, certamente, possiamo vivere nella spensieratezza; anche noi possiamo darci alla pazza gioia, alla ricerca sfrenata ed egoistica della felicità personale, "come furono i giorni di Noè", ci dice il Vangelo: poi però arriva inatteso e improvviso il "giorno in cui Noè entrò nell'arca e non si accorsero di nulla", il giorno, cioè, in cui la vita ci chiede il conto, che non necessariamente coincide con la nostra morte o con qualche disgrazia, ma anche solo con un momento di bilancio parziale e provvisorio di ciò che stiamo facendo, e rischiamo di farci trovare impreparati. Impreparati - sono ancora parole del Vangelo - come quando un appartamento viene visitato dai ladri, i quali, in genere, non mandano un messaggio al proprietario prima di svaligiare una casa; impreparati anche di fronte agli interrogativi della vita, e allora "qualcuno verrà preso e qualcuno lasciato", e noi continueremo a farci domande sul perché alcune cose della vita colpiscono sempre certe persone, mentre certe altre - magare poco meritevoli - la passano liscia; domande a cui difficilmente troveremo una risposta.
Qual è, allora, la soluzione di tutto questo tormento? Quella di rimanere in attesa: un'attesa vigilante, attiva, operosa, attenta, e soprattutto serena, senza agitazioni. Quell'attesa di chi non riempie gli spazi di silenzio con inutili parole o con frastuoni insulsi, ma lascia che risuoni nella sua vita l'unica Parola degna di essere ascoltata, quella del Vangelo.
La possibilità ci viene data, anche quest'anno, attraverso questo Tempo di Avvento, spesso talmente breve che rischia di sfuggirci dalle mani senza aver pensato alle cose di Dio: sta a noi decidere come viverlo; sta a noi, soprattutto, decidere se e come rimanere in attesa del Signore che passa nella nostra vita, sempre e comunque, a prescindere dalla nostra prontezza.