Omelia (16-11-2025)
don Andrea Varliero
Sempre e per sempre, dalla stessa parte, mi ritroverai

Hanno segnato un vivo interesse i libri di Yuvah Noah Harari, riassumibili nella «Breve storia dell'umanità». La Storia brevemente segnata da tre costanti che si ripetono incessantemente: un'epidemia, che genera una carestia, che causa una guerra. Un'epidemia, sia essa una malattia, una peste, una pandemia, fa toccare con mano la fragilità dell'essere umano. L'epidemia contrae la forza lavoro, rallenta i commerci, limita la produttività, causando una carestia, coniugabile come una crisi economica o sociale, il crollo di un mondo politico o di un sistema alimentare, una crisi climatica. E tutto questo diventa dapprima sospetto, poi si avverte come una minaccia, spingendo fino all'odio: non resta che la guerra. A rileggere gli eventi di questi ultimi cinque anni, di questo primo lustro degli anni Venti del Duemila, queste tre parole, epidemia, carestia e guerra, la fanno da padrone. Nei secoli passati pregavamo così: «Signore liberaci dalla carestia, dalla peste e dalla guerra», riconoscendo le stesse identiche dinamiche, le stesse identiche parole, nonostante tutto il progresso. Queste tre parole stanno anche sulle labbra di Gesù. Seduto, in un momento di calma apparente, sulla collina del Getsemani, ammira il panorama insieme agli amici. Fuori dalla frenesia della città, fuori dalle tensioni nel Tempio, fuori dal sospetto del potere, da quel punto panoramico, Gerusalemme è bella, bellissima. La pietra bianca in cima al monte Sion, la settima meraviglia del mondo antico: il Tempio. Erode il Grande aveva impiegato ingegneri e scalpellini, maestranze e denaro, per renderlo imponente, segno di potere e di maestosità. Pietre belle. Verrà profanato, distrutto e annientato nel 70 dopo Cristo, con i romani e il generale Tito.
Gesù, lì seduto, non fa altro che ascoltare il mondo e le sue fini. Finisce un mondo, quello del Tempio: non ne resterà pietra su pietra. Finisce un mondo, quello di una convivenza tra giudei e cristiani: gli uni si separeranno dagli altri, ormai due mondi inconciliabili. Finirà un mondo, quello dei rapporti umani: famiglie costrette a scegliere a chi appartenere. Finirà anche il sistema solare: la stella che lo sorregge, il Sole, è destinata anch'essa a spegnersi, secondo le leggi dell'universo. Finiscono dei mondi sì, ma non è la fine del mondo. È il tempo di alzare lo sguardo, di guardare oltre, più in profondità e più lontano.
Ecco, se ringrazio il cristianesimo e la fede quotidiana, lo è per tre forze interiori che lo Spirito mi dona: guardare sempre in faccia la realtà, non perdermi nella casa della paura, perseverare.
Lì, davanti al Tempio, Gesù non ha chiuso gli occhi, non è fuggito dal mondo, né da tutte le sue carestie, epidemie, guerre. Lì, fermo davanti alla Storia, non ha chiuso gli occhi, non ha chiesto a noi di essere né dei creduloni né dei fanatici, di non seguire il primo incantatore di turno, di non ascoltare la prima maga che ci legge la mano, di non lasciarmi trascinare in una setta, di non dare adito alla cospirazione e al sospetto. Ecco, mi sussurra, rimani con gli occhi attenti, fai discernimento, ascolta fino in fondo il mondo e i suoi segni di speranza.
«Nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto»: è una frase premurosa che solo una mamma conosce, il gesto d'amore delicato di chi ci accarezzava i capelli. È lo stesso gesto degli innamorati, cura e segno di una tenerezza. Neanche un capello andrà perduto. Allora posso sì avere paura, posso sì abitare la casa oscura e solitaria, fredda e ostile, della paura; posso sentire la paura raggelare il respiro, sbarrarmi ogni porta e abbattermi fino a terra, ma non le posso dare l'ultima parola. A non avere paura: la più grande e immensa parola della fede. Credo non perché ho paura, ma credo perché la paura non ha più potere in me.
«Con la nostra perseveranza salveremo la vita». Perseveranza ha a che fare con Dio: Lui è il primo paziente, perseverante, lento, lentissimo all'ira. Che lascia tutto il tempo possibile perché qualcosa cambi. Si mette persino a scrivere, per darmi tempo. La pazienza di Dio ha a che fare con l'empatia: è il sentire in grande tutto il peso dell'altro, cercando di portarlo insieme. La pazienza di Dio ha a che fare con la costanza del seminatore. Perseveranza è una bellissima parola a questi nostri giorni scontrosi, iperattivi, incapaci di concentrarsi, che non leggono più. Perseveranza è una fedeltà a sé stessi e agli altri, ha a che fare con la felicità, con una vita piena. Perseveranza narra di chi lo trovi ogni giorno dalla stessa parte, sempre e per sempre. Sempre e per sempre, dalla stessa parte, mi ritroverai.