Omelia (09-11-2025)
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COMMENTO ALLE LETTURE
Commento a cura di Quintino Venneri

C'è un'acqua che scorre dal tempio e attraversa la città. All'inizio è solo un filo, quasi impercettibile, ma diventa presto un fiume che feconda la pianura e restituisce vita a ciò che sembrava morto. È la visione di Ezechiele: un tempio da cui scaturisce una sorgente che non resta chiusa dentro le sue mura, ma si apre al mondo. È un'immagine che dice molto anche della Chiesa: non un recinto che protegge il sacro, ma una sorgente che lo diffonde; non un confine da difendere, ma un inizio da cui qualcosa prende vita.
Quel fiume è la grazia, la presenza di Dio che scorre nella storia. Tutto ciò che incontra rifiorisce: gli alberi si caricano di frutti, le acque salate diventano dolci, la vita riprende nelle zone dove prima regnava la desolazione. Ezechiele intuisce che la santità di Dio non è separazione, ma comunione: Dio non si custodisce, si dona. La vera fede non trattiene, ma lascia fluire. Il tempio è santo quando non chiude, ma lascia passare l'acqua.
Nella vita della Chiesa e delle nostre comunità, questo movimento si ripete ogni volta che la fede non si riduce a difesa, ma diventa sorgente. Ogni volta che smettiamo di chiedere alla Chiesa di proteggerci e cominciamo a lasciarla scorrere attraverso di noi come servizio, testimonianza, accoglienza, allora il tempio diventa vivo. Una comunità è viva non quando tutto è in ordine, ma quando tutto è in movimento: quando il suo centro non è occupato da noi, ma dal Signore che continua a uscire, a raggiungere, a toccare le periferie della vita.
Nel Vangelo, Gesù entra nel tempio di Gerusalemme e trova mercanti, cambiavalute, animali: la fede trasformata in mercato, la relazione con Dio ridotta a calcolo. Quel luogo che doveva essere spazio di incontro è diventato luogo di scambio. Il gesto di Gesù è deciso, simbolico, liberante. Rovescia i tavoli, disperde le monete, scaccia i venditori. È un'azione che può scandalizzare, ma è un atto d'amore: un tentativo di restituire al tempio la sua verità. Il suo grido attraversa i secoli: "Non fate della casa del Padre mio un mercato".
Ogni generazione deve lasciarsi attraversare da questo grido, perché il rischio è sempre lo stesso: trasformare il Vangelo in abitudine, la preghiera in forma, la comunità in struttura. Gesù non rifiuta il tempio, ma lo purifica perché torni a essere casa del Padre. Non nega la pietra, ma la restituisce al suo senso originario: luogo dell'incontro, non della compravendita. E quando parla del "tempio che sarà distrutto e ricostruito in tre giorni", annuncia un passaggio decisivo: il nuovo tempio è il suo corpo. Non più muri, ma carne. Non più sacrifici, ma vita offerta. Non più altari di pietra, ma cuori che diventano dimora di Dio.
San Paolo, scrivendo ai Corinzi, raccoglie questa rivoluzione e la porta dentro ciascuno di noi: "Voi siete tempio di Dio, e lo Spirito di Dio abita in voi". Non c'è dichiarazione più audace: Dio non si trova in spazi lontani o in istituzioni perfette, ma abita la nostra fragilità. Lì dove sembra esserci disordine, Lui costruisce un santuario; lì dove ci sono ferite, pone la sua presenza; lì dove una vita si apre all'amore, nasce un altare. Custodire questo tempio significa prendersi cura del proprio cuore, delle relazioni, della comunità: perché è lì che Dio sceglie di restare.
La festa della Dedicazione della Basilica Lateranense ci ricorda che ogni chiesa di pietra è segno di una realtà più grande: la Chiesa viva, fatta di uomini e donne che si lasciano abitare dal Vangelo. Il Laterano, "madre e capo di tutte le Chiese", è simbolo dell'unità, ma anche della missione: da lì parte la sorgente che irrora tutto il mondo. Celebrare questa festa significa riconoscere che la Chiesa non è un museo di ricordi, ma una casa che vive solo se le sue porte restano aperte. È viva quando esce, quando serve, quando ascolta, quando si lascia purificare.
Forse oggi il Signore desidera purificare anche le nostre comunità, i nostri modi di credere e di appartenere. Purificare significa restituire alla fede la sua freschezza, alla preghiera la sua sincerità, alla carità la sua gratuità. Forse ci sono mercanti anche dentro di noi: abitudini religiose senza cuore, giudizi che impediscono la comunione, formalismi che spengono lo Spirito. Eppure Dio non smette di passare nel suo tempio per rovesciare ciò che deve cadere e rimettere al centro ciò che salva. La sua forza non distrugge, rigenera; la sua presenza non giudica, ricrea.
Essere Chiesa oggi significa accogliere questa continua opera di purificazione. Non siamo chiamati a difendere Dio, ma a lasciarlo scorrere; non a costruire muri, ma a diventare sorgenti. L'acqua che Ezechiele vide uscire dal tempio continua a scorrere nelle nostre strade, nei gesti di misericordia, nelle parole di perdono, nella fede silenziosa di chi semina speranza senza clamore. Quell'acqua è lo Spirito, che rinnova la terra e fa nuove tutte le cose.
La vera grandezza della Chiesa non sta nelle sue mura, ma nella sua capacità di farsi fiume. Quando la Chiesa accoglie, consola, guarisce, quando non ha paura di sporcarsi le mani, allora mostra il volto del Dio che abita in mezzo al suo popolo. Ogni volta che una comunità diventa casa per chi non ha casa, tavola per chi ha fame, ascolto per chi si sente solo, lì scorre il fiume che Ezechiele aveva visto. E quel fiume, ancora oggi, trasforma il deserto in giardino.