Omelia (02-11-2025)
don Alberto Brignoli
“Festeggiare” i morti? Perché no...?

Quest'anno la ricorrenza della Commemorazione di tutti i Fedeli Defunti cade in un contesto doppiamente particolare. Oltre a cadere in domenica, infatti, si trova all'interno del grande momento di fede e di spiritualità del Giubileo. Questo mi fa pensare che, allora, abbiamo un doppio motivo per fare una cosa che, di primo acchito, non saremmo portati a fare, ovvero quella di "festeggiare" i nostri morti: facciamo festa perché è domenica, e facciamo festa perché siamo nell'Anno del Giubileo, della Gioia, della festa per eccellenza. Certo, nella nostra cultura difficilmente associamo la morte a una festa: tutto ciò che parla di morte, per noi richiama il dolore, il lutto, la sofferenza, la tristezza. E non può che essere così: la morte di una persona cara è sempre un momento doloroso, vissuto con maggiore o minore intensità, a seconda delle situazioni. In generale, ogni approccio con il tema della morte è vissuto dall'umanità con trepidazione, in qualsiasi luogo o epoca storica: in alcuni periodi in modo più tragico e in altri più sereno, in alcuni luoghi in forma più rassegnata e in altri più drammatica, pensare alla morte ha sempre fatto problema, a tutti. E questo problema non si risolve, come facciamo spesso, evitando di pensarvici; tantomeno, esorcizzandolo attraverso forme più o meno "simpatiche" che, alla fine, lasciano il tempo che trovano.
Proprio a tal proposito, ogni anno in questa occasione si leggono e si sentono vespai di polemiche sollevati da alcuni fratelli e sorelle convintamente cristiani circa l'inopportunità della festa di Halloween, da alcuni ritenuta addirittura espressione di un culto esoterico di stampo satanista... Per carità, ognuno è libero di pensare come vuole e va rispettato nel suo modo di pensare, ma personalmente ritengo che accanirsi a lottare in maniera totalmente ideologizzata contro un fenomeno che altro non è se non un'operazione di marketing rappresenti solamente una perdita di tempo (e beato chi di tempo ne ha parecchio a disposizione!). Sfruttiamo questo tempo, piuttosto, per occuparci, sì, di ciò che parla di morte, ma non perché rappresentato da una zucca o da un travestimento, bensì perché realmente sotto i nostri occhi, ogni volta che riceviamo notizie dai molteplici scenari di guerra e ne restiamo indifferenti; e la nostra indifferenza e il nostro silenzio di cristiani, su queste cose, sono a dir poco imbarazzanti.
Indigniamoci, sì, per l'uso che viene fatto della morte a livello commerciale: ma facciamolo anche in tutti quei luoghi e quelle situazioni nelle quali morire diventa un lusso perché diventa un lusso anche prepararsi alla morte. Perché non ci indigniamo mai per le condizioni nelle quali molti anziani e malati sono costretti a vivere i momenti finali della loro vita? Perché non ci indigniamo per i modi in cui oggi celebriamo la morte dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, dei quali spesso questa società pseudo-cristiana si sbarazza con facilità nel momento in cui la loro vita viene meno? Perché non ci indigniamo di fronte a gente lasciata da sola a vivere il proprio lutto, o di fronte a funerali che nelle grandi città vengono celebrati in una manciata di minuti, magari su esplicita richiesta di familiari troppo occupati in altre cose? Perché non ci indigniamo di fronte a una società che non educa più le giovani generazioni alla familiarità con la morte?
Oggi la morte è diventata un elemento di disturbo, invece che un momento di comunione. Oggi si fa un enorme fatica a radunarsi intorno alla salma di un nostro fratello o di una nostra sorella per pregare per loro e per portare conforto ai loro familiari. Oggi si è convinti che tenere in casa un familiare defunto prima del funerale rappresenti una sventura più che un dono. È dalla presa di coscienza di questa situazione che dobbiamo ritrovare il modo di familiarizzare con la morte, non per il gusto del macabro, ma perché torniamo ad avere con la morte quel rapporto di serenità che, per noi cristiani, viene esclusivamente da una cosa: dalla speranza nella Resurrezione.
Io sono convinto che, se riscoprissimo la forza della Resurrezione, il nostro rapporto con la morte sarebbe diverso: diverrebbe più familiare, più normale, più sereno. Torneremmo a dare alla morte quella dimensione temporanea e provvisoria che le è propria. Dico di più: arriveremmo davvero a "festeggiare" i nostri cari defunti in occasioni come queste, non ubriacandoci a una festa in maschera, ma dando loro il giusto e dovuto tributo che spetta a chi ha vissuto pienamente la propria vita e continua a essere in comunione con noi sotto altre forme.
Allora non avremmo più timore a definire il 2 novembre "la Festa dei Morti", perché sarebbe davvero il giorno in cui noi gioiamo per la profondità della loro testimonianza di vita e perché il loro ricordo rimane vivo dentro di noi. È bello che, quando il 2 novembre cade di domenica come oggi, prevalga addirittura sulla Liturgia Domenicale: perché la domenica è comunque festa, non è lutto e dolore! Questo nulla toglie alla drammaticità della morte, nostra e dei nostri cari. Del resto, Gesù stesso l'ha vissuta, e sua madre Maria sa bene cosa significhi il pianto di una madre che perde un figlio in giovane età; come il Calvario è stata una tappa dolorosa e necessaria, ma pur sempre una tappa intermedia, così la speranza nella Resurrezione ci deve aiutare a vivere la morte come un momento di passaggio. E quindi, come l'attesa di un giorno di festa: quella festa che oggi vogliamo e dobbiamo fare ai nostri cari defunti, come se fosse il loro onomastico, il loro compleanno, il loro anniversario, il giorno della loro nascita al cielo.
Lo sa bene chi, da poco ma anche da parecchio tempo, ha perso qualcuno di molto amato: "Il ricordo dei morti vive nella memoria dei vivi", come ricordava Cicerone già un secolo prima di Gesù Cristo. E per noi cristiani, la memoria diventa "Eucarestia", azione di grazie, pane condiviso qui sulla terra e da condividere un giorno, di nuovo, con i nostri fratelli e le nostre sorelle, nella festa senza fine.