| Omelia (26-10-2025) |
| don Lucio D'Abbraccio |
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Lo specchio del cuore! Quante volte, entrando in chiesa, ci sentiamo a posto con la coscienza? Magari pensiamo: "Tutto sommato, non sono una cattiva persona. Non rubo, non ammazzo, la domenica vengo a messa... non sono come quel politico corrotto di cui parla il telegiornale, o come il mio vicino di casa che non saluta mai". Se ci siamo riconosciuti, anche solo per un istante, in questo pensiero, allora il Vangelo di oggi è proprio per noi. Gesù ci racconta una parabola, una storiella semplice ma potentissima, che fa da specchio alla nostra anima. Ci sono due uomini che salgono al tempio a pregare: un fariseo e un pubblicano. Il fariseo era un uomo impeccabile agli occhi del mondo. Rispettava tutte le regole, digiunava due volte a settimana, pagava le decime su tutto. In piedi, a testa alta, la sua preghiera è un elenco delle sue bravure, un ringraziamento a Dio per non essere come gli altri: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano». In pratica, la sua non è una preghiera, ma un selfie spirituale da mostrare a Dio. Si mette in posa, si vanta, e nel farlo disprezza l'altro. Il suo cuore è pieno di se stesso, non di Dio. E quante volte noi ci comportiamo come quel fariseo nella vita di tutti i giorni? Quando giudichiamo un giovane pieno di tatuaggi pensando che sia un poco di buono. Quando critichiamo una ragazza per come si veste. Quando in ufficio ci sentiamo i più bravi e guardiamo gli altri dall'alto in basso. O anche in famiglia, quando rinfacciamo a nostro marito o a nostra moglie tutti i nostri sacrifici, presentandogli il conto del nostro "amore". Siamo lì, in piedi, a elencare le nostre presunte virtù, e intanto costruiamo un muro tra noi e gli altri. Poi c'è l'altro uomo, il pubblicano. I pubblicani erano i «cattivi» di quel tempo, collaborazionisti dei Romani, considerati ladri e peccatori pubblici. Quest'uomo non osa nemmeno alzare gli occhi al cielo. Se ne sta a distanza, lontano, si batte il petto e dice solo una cosa: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Non ha nulla da vantare, nessuna buona azione da elencare. Ha solo il suo cuore povero e ferito da offrire. La sua preghiera è un grido, un sospiro, un atto di verità su se stesso. Riconosce il suo bisogno di salvezza, la sua piccolezza davanti all'immensità di Dio. Sant'Agostino ci ricorda che «l'orgoglio trasforma i beni in mali, mentre l'umiltà trasforma i mali in beni». Mentre San Giovanni Crisostomo commenta: «Vedi la sapienza del pubblicano? Non osa guardare in alto, sapendo di essere indegno. Eppure proprio questa consapevolezza lo rende degno». Pensate alla differenza: è come quando commettiamo un errore sul lavoro. C'è chi dice: "Non è colpa mia, ho fatto il mio dovere, sono gli altri che hanno sbagliato". E c'è chi dice: "Mi dispiace, ho sbagliato io, come posso rimediare?". Chi cresce davvero? Chi impara? Chi mantiene relazioni autentiche? Il secondo. Questa parabola ci interroga profondamente. Quando preghiamo, lo facciamo per incontrare Dio o per sentirci a posto con la coscienza? Una madre che prepara la cena per la sua famiglia può essere più vicina a Dio di chi recita formalmente il rosario pensando: "Almeno io lo recito ogni giorno". Un giovane che riconosce umilmente le sue fragilità e chiede aiuto è più gradito a Dio di chi ostenta la sua spiritualità sui social. San Francesco d'Assisi, che si definiva il più grande dei peccatori, è diventato uno dei santi più amati proprio per la sua umiltà radicale. Non si paragonava a nessuno, si vedeva semplicemente davanti all'infinito amore di Dio come un mendicante bisognoso di tutto. Il pericolo dell'orgoglio spirituale è sottile. Possiamo cadere nell'inganno anche quando facciamo cose buone: l'elemosina diventa un vanto, la preghiera un merito da esibire, il servizio agli altri un modo per sentirci superiori. Gesù ci dice chiaramente: «Chi si esalta sarà umiliato, chi si umilia sarà esaltato». L'umiltà non è sentirsi inferiori, ma è vivere nella verità. È come quando andiamo dal medico: non gli elenchiamo le parti sane del nostro corpo, ma gli mostriamo la ferita, perché è quella che ha bisogno di essere guarita. Il pubblicano ci insegna a presentarci a Dio così come siamo, con le nostre fragilità, le nostre cadute, le nostre "tasse non pagate" all'amore. Gesù conclude la parabola in modo sorprendente: «Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato». Chi si era creduto giusto, torna a casa con il cuore vuoto. Chi si è riconosciuto peccatore, torna a casa con il perdono e l'amore di Dio nel cuore. Il Signore rovescia la nostra logica. Per il mondo vale chi appare, chi ha successo, chi è "a posto". Per Dio, vale chi ha un cuore umile e contrito. Questa settimana proviamo a fare un esame di coscienza: la nostra preghiera assomiglia di più a quella del fariseo o a quella del pubblicano? Siamo bravi a fare l'elenco dei nostri meriti o a riconoscere i nostri bisogni? Affidiamo questo nostro desiderio di conversione a Maria, la Madre di Dio. Lei, la donna più santa e pura, nel Magnificat non si vanta, ma canta la grandezza di Dio che "ha guardato l'umiltà della sua serva". Maria, l'umile per eccellenza, non ha tenuto nulla per sé, ma si è fatta "spazio vuoto" perché Dio potesse riempirla con la sua grazia. Che Lei ci insegni l'arte della vera preghiera, quella che nasce da un cuore povero che si apre all'infinita misericordia del Padre. Amen! |