Omelia (26-10-2025)
don Alberto Brignoli
Non c'è proprio paragone...

Che bello, ogni tanto, sapere che c'è qualcuno che è felice di essere credente, e che ringrazia il Signore per il dono della fede! È più facile, con tutta onestà, trovare cristiani che hanno paura di riconoscere pubblicamente di esserlo: la maggior parte di noi, infatti, non ci tiene a dire a tutti la propria fede, ha quasi paura a testimoniare pubblicamente di essere cristiano, quasi fosse un difetto o una macchia! È bello, invece, saper riconoscere la bellezza della fede che abbiamo ricevuto, e ringraziare il Signore per il dono di questa virtù. La preghiera di ringraziamento non solo è una cosa bella nei confronti di Dio, ma addirittura è doverosa, per noi credenti, perché vuole dire riconoscere che tutto ciò che abbiamo è dono della sua bontà e della sua grazia. Tutto quanto: anche le nostre buone opere, anche quello che facciamo di bene nella nostra vita. Tutto diventa motivo di grazie perché, appunto, gratuitamente l'abbiamo ricevuto dalla sua Grazia.
E allora, se le cose stanno così, perché Gesù, nel vangelo di oggi, se la prende con un uomo dalla fede incrollabile, ovvero un fariseo, che ringrazia Dio per tutto il bene che ha operato nella sua vita? La sua è una vita di fede talmente intensa da giungere a digiunare due volte la settimana (quando agli ebrei osservanti erano chieste, nell'arco di un anno, solamente quattro giornate di digiuno): e addirittura ringrazia Dio perché riesce a pagare le tasse, ovvero le decime di quanto possedeva, ai sacerdoti per il mantenimento del tempio, come la legge richiedeva. Un uomo retto, sia dal punto di vista della sua spiritualità, sia dal punto di vista del proprio impegno di onesto cittadino. Uno che ringrazia pubblicamente Dio per tutto questo. Uno di quelli da prendere come esempio e modello.
Sicuramente meglio di quell'altro che si trovava al tempio insieme con lui: un pubblicano, ovvero una persona che con la santità c'entrava poco o nulla, dal momento che aveva scelto una professione - quella di esattore delle tasse - doppiamente vergognosa, perché collaborazionista con il dominatore romano e perché basata su un sistema di corruzione a dir poco mafioso. Uno, insomma, che non poteva certo essere preso come modello di vita, ancor meno se paragonato a quel sant'uomo di fariseo che al tempio ci andava tutti i giorni. Il pubblicano, quasi certamente, nel tempio ci era capitato per caso. Tra i due, non c'è proprio paragone.
E che non ci sia paragone, lo sa bene anche il fariseo: talmente bene che lo dice a Dio nella preghiera. Non c'è paragone tra la sua vita e la vita degli altri uomini, a suo dire "ladri, ingiusti, adulteri": men che meno è paragonabile a quel pubblicano che osa profanare un luogo santo come il tempio. Lui sapeva bene, dentro di sé, di essere diverso da tutti gli altri, distinto, "separato" (questo significa la parola "fariseo") dalla massa del popolino.
Ma proprio questo è ciò che fa problema a Dio: il paragone tra lui e gli altri. Non per niente, Gesù racconta questa parabola "per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri". Della serie: vuoi essere santo? Vuoi essere perfetto? Vuoi essere onesto? Vuoi essere irreprensibile? Fai pure, e ringrazia Dio, se riesci a essere così. Ma non permetterti di paragonarti agli altri, disprezzandoli perché non sono come te. Non credere di essere migliore di tutti gli altri uomini solo perché osservi irreprensibilmente le leggi di Dio e le leggi dello stato, facendo addirittura di più del dovuto. Non permetterti di catalogare gli altri come pubblicani, peccatori, senza Dio, solo perché non sono così santi come te o perché nella vita hanno tirato insieme solo fallimenti e disastri. E soprattutto, non permetterti più di rivolgerti a Dio in quel modo, usando e abusando della preghiera per lodare te stesso e non lui.
Sì, perché questo è ciò che sa fare, quell'uomo giusto e santo: stare in piedi, eretto di fronte a Dio, quasi a dirgli "Io Sono alla tua altezza", pregando "tra sé" o addirittura "pregando se stesso" perché lui non ha bisogno di rivolgersi a Dio per lodarlo, ma solo per ringraziarlo di essere diverso dagli altri e uguale a lui, simile in tutto e per tutto a Dio. Con il quale, a buon conto, ci si deve rapportare come fa il pubblicano: stando a debita distanza da Dio (segno evidente che Dio è "altro", "totalmente altro" da noi), abbassando lo sguardo (perché non siamo nemmeno degni di guardare Dio negli occhi, quando lo chiamiamo "Padre" dopo essere tornati a casa... e ogni figliol prodigo ne sa qualcosa), battendosi il petto per il più ovvio dei "mea culpa" (invece di gonfiare il petto per appendervi le medaglie di credente modello), dicendo solo tre parole ("Dio", "pietà" e "peccatore"), nessuna delle quali hanno "io" come soggetto protagonista, ma solo un "me", ovvero "l'io" declinato a complemento oggetto... oggetto della misericordia di Dio.
Io non so, e non sta a me giudicare, quale rapporto ognuno di noi abbia con Dio e con la vita di fede: ma speriamo almeno di non avere la sfrontatezza di presumere di essere giusti di fronte a lui, di disprezzare chi sbaglia, e di salvarci senza i meriti della sua Grazia. E stiamo bene attenti, perché di cristiani santi e irreprensibili come il fariseo, pronti sempre e solo a mettersi in mostra in tutto ciò che fanno, capaci solo di giudicare e disprezzare chi sbaglia e fa fatica a testimoniare la propria fede, e talmente presuntuosi da fingere di ringraziare Dio nella preghiera (mentre in realtà ringraziano se stessi) sono piene le nostre chiese e tutta la Chiesa.
E facciamo davvero molta attenzione, perché oggi il Vangelo ci dice che l'intima presunzione di essere giusti e santi è un peccato che anche Dio fatica a perdonare...