| Omelia (26-10-2025) |
| padre Gian Franco Scarpitta |
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Umili per pregare Si prosegue con il tema dell'orazione fiduciosa e attenta che esterna la nostra fede e incute animo, sollievo e costanza nella vita. La preghiera, anche quando non ottiene immediatamente ciò che desideriamo, ci dischiude la speranza di non essere mai soli e di poter contare su Qualcuno che ci ascolta e, in un modo o nell'altro, è pronto ad intervenire a nostro vantaggio. Rimane però la condizione indispensabile dell'umiltà con cui essa va esercitata, anche secondo il detto di Giacomo: "Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni"(Gc 4, 3). Quando l'attività orante è infatti solamente interessata e mira a finalità egoistiche, non può certo essere accolta da Dio e anche nell'esercitarla è innegabile che si sprechi il proprio tempo. Se invece la preghiera è l'espediente utile ad accrescere la nostra fede, l'umiltà è indispensabile per viverla, la fede e anche per ottenerla in seguito alla conversione. Ecco perché la preghiera, in ogni caso, deve fuggire ogni forma di superbia e di falso orgoglio, per essere umile e dimessa. E così Gesù, dopo averi illustrato la necessità dell'orazione costante e in stancabile, di invita a considerare questa nobilissima risorsa della spiritualità, e lo fa con un altro racconto parabolico. Nel tempio di Gerusalemme, che per antonomasia era per Israele il luogo dell'incontro intimo con Dio, avviene che fanno la loro comparsa un fariseo e un pubblicano che si atteggiano entrambi in fare di orazione. Due persone socialmente differenti, culturalmente distanti l'uno dall'altro, ma entrambi animati da una fede indefessa nel Signore, a giudicare dal racconto lucano. Il fariseo, forte della sua ostentata erudizione delle Scritture e delle tradizioni mosaiche di cui vanta una speciale osservanza, pavoneggia davanti a Dio la sua presunta perfezione morale e la sua puntualità nell'ottemperare i propri doveri, anche oltre il dovuto. Pagare la decima di ogni cosa non era infatti obbligatorio per la legge giudaica dell'epoca; bastava pagare la decima su alcuni alimenti. Così pure digiunare due volte a settimana non era neppure richiesto. Bastava farlo nelle occasioni prescritte, come l'annuale festa dello Yom Kippur, il giorno dell'espiazione dei peccati. Costui si inorgoglisce quindi perché a differenza di tanti altri fa qualcosa di straordinario. E la sua presunzione lo conduce anche a paragonarsi al pubblicano che gli sta accanto, anche lui in orazione. La sua abnegazione nell'osservanza dei precetti e la sua precisione sarebbe edificante e lodevole qualora venisse esercitata nel silenzio e non nella preconizzazione di se stesso; nel nascondimento e non nell'ostentazione e nella vanagloria; nella modestia e non nell'alterigia; e soprattutto nella considerazione dei suoi limiti e delle sue immancabili colpe e non già giudicando l'altro che gli sta accanto, aggiungendo quindi peccato su peccato. Proprio mentre prega infatti giudica. Dice di "non essere come questo pubblicano". La virtù la si esercita nel silenzio e nell'umiltà e non nell'autoesaltazione e nella vanità. Chi fa davvero il bene non si fa mai notare anche, se poi di fatto viene a galla. E soprattutto nessuno è giustificato quando si da alle critiche inopportune e ai preconcetti verso gli altri. La preghiera del fariseo è doppiamente presuntuosa, perché con essa si enumerano semplicemente i propri vantaggi e le proprie qualità e poi perché in essa ci si inorgoglisce nell'illusione di essere migliori degli atri, ci si ritiene migliori e più zelanti di coloro che definiamo solamente i "peccatori." Questo fariseo sta pregando davvero o sta solo giudicando il prossimo che gli sta accanto addirittura parlando con Dio? In realtà sta solo "pregando se stesso" (Francesco). Una frase tratta dai "Pensieri sparsi" di Montesquieu afferma che "l'orgoglio è un errore dell'anima, ma l'umiltà è verità". E infatti questo fariseo rappresenta tutti coloro che non solamente si mostrano superbi, altezzosi e vanitosi nonché manchevoli verso gli altri, ma anche ostinato misconoscitore del vero. La presunzione e l'orgoglio di precludono la possibilità di conoscere la sua vera identità, di conoscere se stesso fino in fondo. Se infatti disponesse di un po' di umiltà, scoprirebbe tantissime lacune su stesso, tante insufficienze, aberranti e demoralizzanti elementi ignorando i quali non viene neppure a conoscenza di se stesso. Nella descrizione che Manzoni fa di Don Ferrante ne "I promessi sposi" emerge la figura dell'uomo sapiente, erudito ed elevato, di una sapienza talmente altera da fargli misconoscere la realtà al punto di negare l'evidenza della peste. Fino a morire vittima di questo stesso morbo. Anche a proposito del fariseo possiamo analogamente concludere che l'eccesso di vanità e di ostentazione di se stessi, insomma la superbia e la tracotanza ci renderanno vittime della nostra stessa presunzione e del nostro stesso falso orgoglio, dischiudendoci le porte alla verità alla quale solo l'umiltà ci può condurre con gli occhi aperti. Specialmente poi quando tale tracotanza ci induce ad elevarci nei confronti degli altri, a ritenerci insuperabili ed eccelsi. Più esaltante è invece l'atteggiamento del pubblicano, notoriamente pagano nei costumi e conosciuto perché truffatore e intrallazzatore nel riscuotere le tasse per l'erario di Roma. Questi si concentra semplicemente sulla verità che ha conosciuto di se stesso, appunto perché al contrario l'umiltà lo ha condotto a conoscere il vero anziché ad esaltarsi. E il "vero" che ha riscontrato in se stesso è quello di essere sempre stato un esattore disonesto, profittatore e usurpatore e di aver vissuto magari da sprovveduto. Sempre l'umiltà lo conduce a riconoscersi peccatore e a non porre alcun termine di paragone con nessuno, tantomeno con il fariseo che gli sta accanto. Si limita solamente a pregare Dio perché lo accetti e lo accolga nella sua fragilità, ritenendosi indegno. L'umiltà ha reso per lui la preghiera veramente fruttuosa, perché da essa si ritira fiducioso, spronato e motivato, convinto di essere stato "giustificato" da Dio. Cioè di essere stato ricolmato di grazia e di giustizia in ragione della sua grande umiltà. Meglio essere umili per conoscersi e per correggersi, che mostrarci vanitosi per illuderci e poi perderci. |