Omelia (26-10-2025)
don Andrea Varliero
La perfezione per gli altri. Negli altri

«Ma il Figlio dell'uomo quando tornerà, troverà la fede?»: l'ultima domanda incontrata domenica scorsa è anche la prima domanda di questa domenica. Una parabola, un fermo immagine che nasce da uno sguardo attento: alcuni hanno l'intima presunzione di annientare, di nullificare, di disprezzare gli altri. Che cosa li spinge a questo? La loro rettitudine, la loro ostentata religiosità, il loro porsi un gradino sopra, che fa guardare dall'alto al basso. Pretendono e vogliono sempre la perfezione. Per gli altri. Negli altri. Mi sorprende la profonda contemporaneità del quadro narrato, intessuto di narcisismi e di solitudini esasperate, di un vuoto profondo e di grida allo scandalo, forse una piccola possibilità di rinascita.
E il grande narratore ci racconta di due uomini. Ascoltiamoli, ci abitano dentro. Hanno camminato per l'intero Vangelo insieme, il fariseo e il pubblicano. Insieme sono andati nel deserto dal Battista, insieme hanno pranzato insieme al Maestro, insieme hanno ascoltato parabole di Misericordia. Ora sono arrivati insieme al Tempio, quello spazio che sarà abitato anche dall'uomo della Croce, quel Tempio in cui Egli stesso sarà volto disprezzato, deriso, calpestato, nullificato.
Lì, il Maestro narratore ci indica due modi di stare: uno ritto in piedi, una statua di integrità; l'altro rannicchiato, deformato dal dolore, forse dal senso di colpa. Uno che avanza tra i primi, l'altro in fondo che non ha il coraggio di alzare lo sguardo. Uno pieno di orgoglio in viso, l'altro che conosce la vergogna negli occhi. Due preghiere differenti vengono intonate: «Mio Dio, ti ringrazio che io non sono come questa umanità schifosa, come questa umanità così sporca, come questa umanità deprecabile». Ringrazia per non essere come gli altri: prega per il niente, prega niente. E soprattutto rivela un qualcosa di tronfio, di talmente espanso da non riuscire a rimanere contenuto dentro: è la parola «io». «Io» non sono, «Io» digiuno, «Io» pago. Io. Giorgio Gaber, già vent'anni fa ne fece una canzone, prima di lasciarci: «La parola io». «Io vanitoso, presuntuoso, esibizionista, borioso, tronfio. Io superbo, megalomane, sbruffone, avido e invadente. Disgustoso, arrogante, prepotente. Io, soltanto io. Ovunque io. La parola io: questo dolce monosillabo innocente è fatale che diventi dilagante, nella logica del mondo occidentale. Forse è l'ultimo peccato originale. Io». Dilagante questo monosillabo in questi nostri tempi, volti di uomini e di donne fragili, fragilissimi. Narcisi con un bisogno smisurato di essere ammirati, di sentirsi un gradino più su, totale mancanza di empatia. Ci rappresenta tantissimo quest'uomo, quotidianamente entra nelle nostre case dalla televisione; costantemente è tra i social a commentare; lavora ogni giorno con noi, nostro collega; è capace di violenza inaudita se gli diciamo di no, responsabile delle guerre e dei conflitti che viviamo. Abita fuori, ma soprattutto dentro, di me.
Il pubblicano, invece, là in fondo ha il coraggio di togliere la maschera. Sa di essere niente, ed è già qualcosa. Forse domani sarà migliore di oggi, forse ci proverà: non lo sappiamo, ma non è questo il punto. La sua grandezza sta nell'aver lasciato entrare finalmente un «Tu» nella sua vita. «Tu», abbi pietà di me. Dio inizia da un «tu», da un altro da me. L'altro è il mio limite, l'altro è il mio confine, l'altro è la possibilità di Paradiso.
«Chi si umilia sarà innalzato, e chi si innalza sarà abbassato»: avevamo iniziato domenica scorsa con la costanza nella preghiera, approdiamo oggi all'umiltà, un grande bagno di umiltà nella preghiera. L'umiltà non ha nulla a che fare con l'umiliazione, non è data dagli altri: non sono gli altri che ci devono dire di essere umili, tradendo così la loro stessa ferita narcisistica. L'umiltà ha a che fare con la terra, con «l'humus», e con l'umanità: sono tre parole che hanno la stessa radice, la stessa natura, quella di essere terra fragile e polverosa. Possiamo allora declinare umiltà come autenticità: chiamati ad essere umili, cioè autentici. L'umiltà ci chiede di togliere la corazza e la maschera, ci rende fragili e ci insegna a smettere di combattere contro noi stessi. Fragili vasi di terra, capaci di accogliere oro puro, lo Spirito. L'umiltà ci fa intonare un inno di gioia, il canto di Maria nel Magnificat, amati dal Signore per questa nostra fragilità. Grandi cose riesce a compiere in noi, nelle nostre piccole vite, se gli diamo spazio come ad un Altro. Ne esco un po' con le ossa rotte dopo questa parola: da non avrai altro «io» all'infuori di me, al non avrai altro «Dio» è davvero un cammino impossibile. Chi ci salverà? L'abbraccio di un bambino.