| Omelia (12-10-2025) |
| padre Gian Franco Scarpitta |
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Via i preconcetti, spazio alla fede e alla riconoscenza Si è parlato tante volte della lebbra e del significato d'impurità che comportava nella comunità del popolo d'Israele. Si trattava di una malattia terribile, per la quale il Levitico (cap 14) prescriveva delle norme ben precise di purificazione che la persona che ne era affetta era tenuta ad osservare: coprirsi il mento, indossare cenci e gridare tutt'intorno "Impuro, impuro" e avvisare così tutti gli altri del suo stato, in modo che ne fossero al corrente e che potessero evitarlo. Il lebbroso era costretto a isolarsi, vivere lontano dalla comunità fin quando non si fosse purificato con una serie di riti da parte del sacerdote. La sua infermità era peraltro interpretata come una sorta di punizione divina e anche per questo occorreva sottomettersi a delle purificazioni. Già l'episodio di Naaman di cui alla prima Lettura di oggi (2Re 5, 14 - 17) ci ragguaglia del fatto che la misericordia di Dio, il suo amore e la comprensione con cui Egli si atteggia nei confronti dei malati di lebbra, supera le aspettative del rigorismo rituale e liturgico. Eliseo invita infatti il condottiero Naaman, affetto dalla terribile malattia, a immergersi sette volte nel fiume Giordano per riconquistare così la guarigione e la purezza; in questo gesto Dio si mostra vicino al malato nella persona del profeta Eliseo, che era succeduto ad Elia mentre vedeva questi salire al cielo avvolto da un carro di fuoco, che vive alcune tappe similari a quelle del suo predecessore e adesso si fa latore della bontà estrema del Signore. La misericordia di Dio supera anche la concezione pregiudiziale che persiste sul concetto di impurità, indicando che non l'esteriorità, ma la disposizione del cuore determina la vera integrità della persona. Gioele invita in un suo passo a "lacerarsi il cuore, non le vesti" per esprimere il pentimento e il ravvedimento dai peccati e anche se vi sono segni esteriori da osservare quali il digiuno e il lamento essi costituiscono solamente (appunto) un elemento simbolico, allusivo ed esplicitante una realtà interiore di redenzione avvenuta. La bontà e la purezza albergano nell'intimo della persona ed eventuali nequizie promanano dal di dentro prima ancora delle eventuali esteriorità degli atti. Del resto Dio scruta, lui solo con somma competenza e profondità, l'animo di ciascuno e solamente Lui è in grado di scrutare e conoscerci fino in fondo; a nulla vale quindi ogni pregiudizio sociale o prevenzione nei riguardi di chi vive una situazione particolare. Ecco perché Gesù contravviene a tutte le norme vigenti quando una sola di quelle persone risanate dalla lebbra torna indietro da lui a rendere gloria a Dio (per mezzo di lui). Aveva già superato una concezione di pensiero restrittiva camminando per i villaggi della Samaria, terra considerata profana e aberrante, da evitarsi assolutamente e che lui invece percorre con risolutezza e tranquillità, noncurante dei pregiudizi che si sarebbe addossato sia da parte degli stessi Samaritani sia da parte degli zelantissimo e perbenisti Giudei di Gerusalemme, dove poi giungerà. Vi cammina senza scomporsi e senza che la sua attitudine faccia una piega, trattando tutti alla pari senza riserva alcuna di malcontento o di pregiudizio. Gesù contravviene alla norme e alle prescrizioni vigenti che vietano qualsiasi contatto con persone o situazioni definite impure e indegne. Ma più che alle disposizioni scritte, Gesù contravviene alle insulsaggini e alle miserie concettuali che interessano la società in cui vive: si allontana dalle tendenze discriminatorie e ghettizzanti diffuse nel suo tempo e considera i lebbrosi alla pari di tutti. Certo, anche lui considera che vi sono delle prescrizioni da osservare, come quella di recarsi dal sacerdote per i rituali adempimenti contro la lebbra; non manca di chiamare i suoi sfortunati interlocutori al dovere e alla responsabilità legale, ciononostante non manca di usare misericordia verso quei malcapitati. Essi si ritrovano guariti mentre eseguono il suo comando di recarsi dal sacerdote per la purificazione rituale. Immaginiamo adesso l'esultanza di queste povere persone ora raggiunge da un beneficio straordinario: gioiscono, esultano, corrono verso gli abitati per condividere con tutti la loro grande soddisfazione. Si rallegrano e certamente organizzano feste e banchetti per la riacquisita sanità. Ma chi ha almeno l'avvedutezza di ringraziare Dio per quanto ha ottenuto? Chi cioè si dispone alla riconoscenza, o meglio alla fede? Perché in effetti si tratta di questo, della fede nel Signore che ha appena operato una grazia speciale per la quale occorre usare riconoscenza. Nessuno, a parte un Samaritano. Questi prende le distanze dall'atteggiamento comune dei suoi compagni di sventura e corre a rendere lode a Dio che riconosce vivo,, presente, operante e misericordioso nella persona di Gesù suo Figlio. Vi ha creduto. Ha creduto al suo messianismo, alla sua parola che ha prontamente eseguito, ha accolto la rivelazione dell'amore e dall'amore si è lasciato avvincere; soprattutto, verso l'amore di Dio usa riconoscenza e gratitudine. Il vero credente infatti non prega il Signore solamente quando necessita di una grazia o di un intervento urgente; non si ricorda di avere un credo soltanto quando gli serva una religiosità usa e getta, ma si mostra costantemente attivo nel dialogo con il Signore e concede sempre se stesso al dialogo e all'interazione con lui, anche quando deve rendere grazie e usare riconoscenza. Ringraziare è infatti un atto di fede e prima ancora anche di umiltà, perché sottende il riconoscimento che determinati privilegi sono solo di provenienza divina; esprime convinzione e consapevolezza che senza Dio l'uomo non sarà mai in grado di provvedere a se stesso; impone quindi che ci si senta obbligati costantemente verso il Signore perché ci concede dei beni che non maritiamo. Impone anche che, a nostra volta, superiamo illazioni e preconcetti nei confronti del prossimo, facendoci invece anche noi "prossimi" di chi soffre nella consapevolezza che potremmo anche noi vivere la medesima necessità. Di tutto questo tante volte è capace ancora adesso solo un "Samaritano", ovvero chi solitamente noi giudichiamo con cattiveria e pregiudizio, il cosiddetto lontano e "miscredente". Che tante volte invece mostra amore e sensibilità disarmati da cui tutti noi dovremmo trarre esempio. In questi giorni la cronaca ci ragguaglia finalmente di un evento confortante che incute speranza: la realizzazione di un trattato di pace in Medio Oriente fra Israele e Palestina, che ha già sortito il "Cessate il fuoco". Dopo innumerevoli preghiere per ottenerlo, saremo spronati a farne altrettante per rendere grazie al vero Fautore della Pace? |