| Omelia (26-10-2025) |
| Missionari della Via |
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Commento al Vangelo In questa trentesima domenica del Tempo Ordinario, il Vangelo ci presenta una parabola che Gesù rivolge a coloro che si ritenevano giusti e disprezzavano gli altri. È una scena semplice ma profondamente rivelatrice: due uomini salgono al Tempio per pregare. Uno è fariseo, l'altro pubblicano. Due figure opposte, due modi di stare davanti a Dio. Il fariseo è un uomo rispettato, osservante, devoto. La sua preghiera è un elenco di meriti: digiuna, paga la decima, non è ladro né adultero. Inizia la sua preghiera con un termine molto bello: «grazie» (v. 11); possiamo dire che la sua è una lode sotto forma di ringraziamento ma guidata da un'idea distorta di Dio e di se stesso. Utilizza Dio per gloriarsi; a parole si rivolge a Dio ma il suo cuore non è rivolto a Lui. Non ringrazia per la grazia ricevuta ma per la propria superiorità: «Ti ringrazio perché non sono come questo pubblicano». Il problema non è ciò che fa ma il disprezzo che nutre. La sua preghiera non è dialogo con Dio ma specchio della propria vanità. Diceva bene p. Silvano Fausti che «il nostro fariseismo esce proprio tutto bene quando preghiamo. E non a caso! La preghiera è specchio della verità: ci fa vedere tutto il male di cui accusiamo gli altri [...] Non c'è preghiera senza umiltà» (Silvano Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Luca, Edb, Bologna 2010, p. 610). Senza umiltà lodiamo noi stessi, non ci rivolgiamo a Dio. Il fariseo compirà anche opere buone ma non prega, non attende nulla da Dio, è già pieno di sé; perciò, riesce a proferire solo parole vuote. Il pubblicano, invece, si ferma a distanza. Non osa alzare lo sguardo, si batte il petto e implora: «Abbi pietà di me». È consapevole della sua fragilità, e proprio questa umiltà apre il cuore di Dio. Non si giustifica, non si paragona ma si affida. La sua preghiera nasce dalla povertà interiore, dalla coscienza di non bastarsi. Non lo precedono le sue opere buone, come nel caso del fariseo, ma il disprezzo e il pregiudizio che patisce in quanto pubblicano; e si pone di conseguenza, non come un giusto ma come un mendicante. Dio ha una debolezza per gli umili, tanto che ci dice il Siracide «la preghiera degli umili penetra le nubi» (Sir 35,21), perciò spalanca il suo cuore davanti a chi si riconosce bisognoso. Potremmo dire che, addirittura, il pubblicano quasi non prega, non si sente degno, non chiede, non loda, parla con Dio ma: «dice» (v13), cioè si rapporta con semplicità, con consapevolezza di chi è lui e chi è Dio. Scriveva la teologa Rosanna Manes: «Dio non ama i cantieri della tracotanza umana ma le immersioni nell'oceano della sua misericordia, non ama le preghiere autocelebrative ma i genuini colloqui di chi ha il coraggio di voltare pagina, contemplando non se stesso allo specchio ma il Volto dei volti, quello che solo restituisce all'uomo e alla donna i loro autentici connotati». Questa parabola ci interroga: non basta chiedersi quanto preghiamo ma come lo facciamo. Qual è la disposizione del nostro cuore? Il Signore non disprezza il pubblicano per il suo stile di vita né elogia il fariseo per le sue opere buone, ma ci fa andare al cuore del loro modo di porsi rispetto all'idea stessa di Dio. La preghiera umile ci aiuta a cogliere le giuste proporzioni fra noi e il Creatore, facendoci riconoscere come mendicanti. La nostra povertà, irriducibile e vera, è il varco attraverso cui l'Infinito si avvicina. È l'unica realtà che può dialogare con la tenerezza dell'Altissimo, raccogliendone i sussurri e rispondendo con la fiducia di chi non ha nulla da difendere. |