| Omelia (14-10-2025) |
| Missionari della Via |
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Un fariseo invitò Gesù a pranzo e si stupì nel notare che non aveva osservato il rito delle abluzioni, come prescritto dalla Legge. Si trattava di qualcosa di serio, non era una norma igienica ma un lavaggio rituale, un gesto che rendeva sacro anche il pasto. Gesù, non rispettando questa regola di purità, fa emergere in modo provocatorio l'ipocrisia di chi pensa di purificarsi solo esteriormente, con pratiche e gesti esteriori! Se ci osserviamo con sincerità, anche nelle nostre comunità affiorano forme di ipocrisia, magari sotto vesti diverse. È frequente trovare persone che si mostrano particolarmente disponibili e vicine al parroco, al vescovo o, nel nostro caso, ai missionari. Purtroppo, questa generosità si rivolge solo alle guide, mentre gli altri fratelli, i familiari, i poveri, sembrano invisibili. È questo il primo segnale di una bontà solo apparente che rischia di non essere evangelica. A volte, usiamo persino i poveri, ci serviamo di loro per apparire persone buone. Li facciamo sfilare nelle chiese, così come gli immigrati, presentandoli quasi come trofei della nostra carità. Anche questi sono gesti esteriori, purtroppo molto diffusi. Accade anche che, sotto lo sguardo degli altri, in chiesa ci comportiamo con devozione, mentre a casa, con la nostra famiglia, non c'è nessuno più sgarbato di noi. Parliamo con orgoglio dei nostri pellegrinaggi, delle preghiere, dei rosari e di tante pratiche che dovrebbero testimoniare la nostra fede, eppure, l'ipocrisia può insinuarsi con sottile eleganza nel nostro modo di vivere, travestita da devozione. Chi basa la sua vita sul fare e non entra mai nel profondo, rimane sempre nel buio, lavora più all'esterno che nel cuore. Mi è capitato di incontrare persone impegnate nella Chiesa, nelle curie, nei contesti parrocchiali o inserite in comunità religiose che però, proprio perché immerse in un ambiente "sacro", trascurano la propria vita spirituale. Il rischio è che l'attività che si svolge, anche di preghiera, diventi una fuga: si moltiplicano i gesti ma si evita il confronto con sé stessi, con la parola di Dio, con le ferite che abitano l'anima. L'esteriore e l'interiore sono importanti per la nostra maturità spirituale, non possono essere vissuti come compartimenti stagni incomunicabili. Un esempio è quello di un uomo cristiano che vuole fare carriera al lavoro, e perciò non aiuta i colleghi in difficoltà, tace la verità, perché tutto potrebbe "macchiarlo" o fermare la salita verso la gloria. La sua interiorità potrebbe non rispondere più ai richiami della coscienza, in una totale diseducazione al bene, tutto proteso alla ricerca di un bene apparente. Ecco che compare così l'ipocrisia che è tanto sgradita a Gesù! L'interiore, infatti, conta se ciò che è dentro è buono e viene dato in elemosina, cioè se le tue azioni esteriori sono un dono e rispecchiano ciò che coltivi o vuoi coltivare dentro. Ma noi lavoriamo per una buona interiorità? Possiamo dire che più ci avviciniamo a Dio e più non ci sarà né interiore né esteriore: ci sarà un corpo unificato, un uomo o una donna che serve al mondo. Perciò i monaci si chiamano così, perché sono chiamati ad essere monos, cioè uno. Che sia alla postazione di lavoro, per le strade o in convento, siamo chiamati a questa unità, a questo incontro unificato nell'amore fra dentro e fuori. «La Bibbia non conosce la nostra distinzione tra interiorità ed esteriorità. Perché dovrebbe? Ciò che conta per la Bibbia è sempre l'Ανθρωπος τ?λειος, l'uomo intero, anche quando, come nel discorso della montagna, il decalogo viene spinto nella massima interiorità. Il «cuore» nel senso biblico non è la realtà interiore ma l'uomo intero, quale egli è davanti a Dio» (Dietrich Bonhoeffer). |