Omelia (28-09-2025)
padre Gian Franco Scarpitta
Non amare è già inferno

I ricchi e i potenti sempre più consolidati nella sicurezza e nell'opulenza, gli indigenti e i bisognosi sempre più vittime della penuria e delle ingiustizie e dei raggiri dei potenti. Imprenditori, grossi industriali, impresari sempre più protetti nella conclusione dei loro affari a dispetto di lavoratori sottopagati e privi della dovuta sicurezza e delle attenzioni previdenziali; c'è chi che per non perdere il misero stipendio è costretto a misconoscere i propri diritti e a soccombere alle angherie dei grandi. Scafisti e sfruttatori di uomini che si arricchiscono sulla pelle di tante persone esposte al pericolo e all'indigenza; c'è chi guadagna persino sulla fama di tante persone vilipese e prive di dignità.
Allora come adesso, la liturgia di questa Domenica ci chiama in causa, descrivendo una situazione equivalente di sopraffazione e di ingiustizia e lanciando anche a noi il seguente ammonimento:
è' indubbiamente vero che la prudenza non è mai troppa relativamente a coloro che ci fermano per la strada questuando denaro; profittatori e falsi indigenti se ne incontrano spesso e tante volte c'è anche chi sfrutta la buona disposizione del prossimo. Ciò tuttavia non legittima l'indifferenza e il distacco verso i poveri e i bisognosi e la distanza aristocratica dalle indigenze e dalle necessità oggettive non è mai giustificata. Nel testo delle Costituzioni del mio Ordine Religioso (Minimi di san Francesco di Paola) vi è un inciso che ammonisce severamente di come gli sperperi e gli sprechi dissoluti e incontrollati e gli sfarzi innecessari suscitano "il grido dei poveri, che non può non essere ascoltato da Dio". Tale precisazione, che richiama al dovere verso la semplicità e la povertà evangelica, ricalca la condanna dell'ingiustizia e della conculcazione dei deboli e degli indigenti che viene espressa dalle letture odierne, le quali sottolineano che al di là delle aberranti posizioni dell'uomo e delle manovre ostentate a vantaggio di pochi per la rovina di altri, c'è sempre un Dio che prende le distanze dalle cattiverie e dalle perversità nei confronti dei deboli, che si schiera dalla parte di chi soffre e che non mancherà di apportare la dovuta giustizia ed equità per esaltare chi viene buttato a terra. Amos proclama un Dio che agirà contro tutti i perversi e gli sciacalli di cui la società del suo tempo è popolata, che interverrà inesorabilmente contro le ingiustizie e le perversità nei confronti dei poveri e degli indifesi, palesandosi come Dio della giustizia e della solidarietà, quale lo stesso profeta minore lo descrive sempre nel suo testo e questo esorta alla speranza e alla fiducia.
Anche nel Nuovo Testamento Gesù invita a non soccombere allo scoraggiamento e alla sfiducia, ma a confidare in un Dio quale egli stesso è: Figlio di Dio fatto uomo per essere povero con i poveri, sottomesso e annichilito ai potenti, oltraggiato dai nemici e perseguitato fino alla morte, per avere ragione delle ingiustizie di questo mondo, ma soprattutto per affermare il primato di Dio sul mondo. Il Dio che Gesù testimonia con le parole e con le opere capovolgerà la situazione attuale "rovesciando i potenti dai troni e innalzando gli umili" (Lc 1, 48) e restituendo quanto spetta di diritto a coloro che ne sono stati espropriati. La giustizia non mancherà di trionfare già su questa terra, ma specialmente quando tutti saremo chiamati al cospetto di Dio avverrà il giudizio che sarà senza misericordia per chi non avrà usato misericordia (Gc 2, 13) e i poveri che avremo snobbato e calpestato in questa vita siederanno accanto a Dio stesso per giudicarci e condannarci.
La parabola di cui si fa allusione, denominata del "ricco epulone", ci invita a pensare alla giustizia verso i poveri e gli ultimi come un fattore di coscienza personale e di responsabilità, che non deve motivarsi da un timore o da una coazione esterna ma deve rispondere a un imperativo etico di coerenza con la nostra fede e ancor prima di immediatezza verso il senso stesso di umanità. Nulla può tenerci lontani dalle vessazioni dei miseri se non la presa di coscienza di dover vedere negli altri noi stessi e verso gli altri muoverci quindi con empatia e interesse come quando trattiamo noi stessi. L'altro, specialmente il bisognoso e l'indigente, è un altro me stesso e soprattutto è il luogo della manifestazione di Dio che non vediamo.
Il benestante che nel corso della sua vita, forte delle sue ricchezze e dei vizi, aveva snobbato e calpestato il misero costretto addirittura a cibarsi degli avanzi della sua mensa, nella dimensione di eternità non solamente vive l'eterna sofferenza causata dalla sua medesima volontà di lontananza da Dio, ma è condannato, mentre si trova nei tormenti, a osservare lo stato di beatitudine e di benessere a cui ora è interessato colui che prima aveva conculcato a angariato. Secondo la concezione ebraica vi era infatti una sorta di abisso fra il mondo dei beati e quello dei dannati e i due girono venivano descritti in modo tale però che da una parte si potesse guardare verso l'altra. Cosicché colui che sulla terra era stato ricco e potente adesso si trova a guardare la perenne gioia di chi ha meritato il paradiso dopo lunghi tormenti terreni.
E non c'è più rimedio per lui. E' caduto egli stesso in quello stato di autoprivazione e di abbandono che gli ha conseguito la procurata lontananza da Dio che - inutile fuggire il discorso - esiste e nella quale precipitano appunto coloro che preferiscono la perversione e l'iniquità, quella che noi chiamiamo Inferno. Una dimensione che già in questa vita procura alla nostra anima smarrimento e abbandono, inconsapevole sofferenza e privazione che avrà la sua acme nell'eternità. Per adesso l'anima sembra compiaciuta, soddisfatta ed esaltata dal procurato malessere a cui soggiace sotto falsa parvenza di benestare; quando dovrà esulare dal corpo, non potrà non soffrire del distacco da Dio che tale apparente soddisfazione effimera gli avrà procurato in questa vita. La sua principale sorgente, Dio, le risulterà alienata e irraggiungibile, ne avvertirà con atrocità la mancanza e ne soffrirà eternamente la privazione e appunto questo sarà l'Inferno, la pena eterna che comincia nella vita presente.
Tuttavia, disprezzo, distanza e refrattarietà verso gli ultimi e gli esclusi, la mancanza di amore e di carità nonché lo sdegno e l'indifferenza verso le sofferenze lancinanti di questo mondo, costituiscono già al presente l'inferno delle nostre false sicurezze, alienandoci le ricchezze vere e destabilizzandoci nella stessa comunicazione con gli altri. E' insomma inferno già su questa vita il procedere contro Dio che si rivela spesso nei miseri e negli abbandonati. L'inferno della falsa ricchezza e dei falsi ideali che mostrano sempre prima o poi la loro perniciosità.
Che qualcuno faccia ritorno dal mondo dei morti per avvertirci non serve. Non è detto infatti che le apparizioni angeliche, i miracoli o gli effetti di fenomeni straordinari siano convincenti riguardo alla nostra condotta su questa vita. Se la Parola di Dio non suscita in noi il risveglio del germe della conversione e del ravvedimento, se non ci scuote alla consapevolezza del nostro dovere di responsabilità e se la fede non si riproduce nella sua identità reale attraverso le opere di carità sincera e disinteressata nemmeno i più grandiosi eventi miracolistici o le estasi più esaltanti possono convincerci in modo da salvarci in questa o nell'altra vita. Dev'essere nostra comune convinzione radicata la scelta di Dio e l'assoluta certezza che essa sia davvero concretizzata è la carità convinta e incondizionata verso coloro che soffrono.