Omelia (14-09-2025)
CPM-ITALIA Centri di Preparazione al Matrimonio (coppie - famiglie)
Commento su Nm 21,4-9; Sal 77; Fil 2,6-11; Gv 3,13-17

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo:

«Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.

Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.

Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».


Non c'è un unico modo per trovare il Cristo e farne la ragione della propria vita. C'è chi lo trova, come Levi, stando seduto dietro al banco di un'odiata funzione pubblica; c'è chi, come Zaccheo, lo aspetta nascosto tra il fogliame di un albero di fico; c'è chi lo riconosce, come i discepoli di Emmaus, allo spezzare del pane, e chi, come Maddalena, attraverso il filtro terso delle lacrime più pure. C'è chi lo cerca, come Nicodemo nella pagina odierna dell'evangelo, quando la notte rende più acuta lq solitudine, più estenuanti i dubbi, più angosciosa la paura. E c'è chi lo trova all'ultima ora, condividendo con Lui l'agghiacciante liturgia di una condanna a morte.

Il Cristo si può trovare nella gioia e nella disperazione, come inquietante presenza o come tragica, insopportabile assenza; nel silenzio spesso desolato di una difficile contemplazione o nel clamore irritante di una festa chiassosa. E tuttavia, quale che sia il contesto, non è mai possibile rimuovere, nel nostro percorso di donne e di uomini in ricerca, così come non è mai possibile rimuovere dalla coscienza storica dell'umanità, l'immagine di quelle tre croci innalzate, nel buio precoce di un giorno di primavera, sulla sommità di un monticello sassoso alla periferia di Gerusalemme. Le loro ombre s'allungano, smisuratamente, e s'intrecciano a formare uno strano disegno che percorre senza soste le inquietudini sommerse dell'inconscio collettivo. Attraversano la coscienza di ogni essere umano, di ogni fede o di nessuna fede, addirittura dei torturatori senza pietà, che pure vanno a pregare al Muro del pianto, uccisori di esseri inermi, mamme, vecchi, bambini, privando per sempre l'umanità del loro sorriso; e di affaristi mentitori, che calpestano e oltraggiano arrogantemente, con il beneplacito dei loro sodali, ogni diritto e ogni costituzione. Sì. Il Cristo che pende dalla croce è immagine e realtà universale, non solo dei credenti appartenenti a una religione che da Lui prende il nome; è appeso alle forche di Auschwitz, nelle celle della morte argentine, vive nei palazzi distrutti di Kiev, di Gaza e nei bunker israeliani, preme contro i muri fatti costruire da menti assassine, piange con le donne oltraggiate e naufraga nel Mediterraneo mentre cerca di raggiungere un porto ospitale sempre negato. È costantemente quella, l'ombra del Cristo in croce; essa interpella tutti, anche chi vorrebbe eliminare, per il tragico gioco della rimozione, la sua immagine dalle aule scolastiche e dei tribunali perché una malintesa laicità non sa che farsene di un Dio che, come " Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall'aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce..." (cfr.Fil 2, 6-11).

Questo vale anche per chi si professa credente. Se alla nostra fede togliamo la croce, "quella" croce, che cosa rimane? È molto bello scoprirci "credenti" quando siamo invasi dalla gioia, quando sentiamo di poter vivere l'amicizia e la fraternità, quando siamo nella condizione di spirito per sognare che i profeti non vengono più crocifissi, né i poveri disprezzati e oppressi, quando l'utopia riesce a farsi strada tra la fitta selva delle ideologie politiche, consumistiche e religiose... e dimentichiamo che per poter vivere con quella fede e con quella gioia, per poter allevare utopie, dobbiamo necessariamente entrare in rapporto con la morte del Cristo, perché la liberazione agognata passa attraverso la sua e la nostra croce, il suo e il nostro Orto degli Ulivi, il suo e il nostro Calvario.

Un caro amico e al contempo un caro maestro, già direttore responsabile della nostra rivista, finissimo teologo purtroppo scomparso, Vittorio Croce, scriveva: "La morte, quella morte, non diventa cosa buona e desiderabile in sé, il male resta male, ma non distrugge la speranza. Molte teorie teologiche esalteranno la croce. Gesù non l'abbraccia. Essa resta segno di violenza e di ingiustizia. Ma paradossalmente diventa, grazie all'amore che la insanguina, segno e strumento di salvezza" ( Quell'uomo crocifisso è il Figlio di Dio, Piemme, p.66).

Quella croce assoggettata così spesso a fenomeni rimozionali, sarà sempre il simbolo ineliminabile di una violenza istituzionale. Come ogni condanna a morte. Come ogni esecuzione, anche la più asettica e indolore. Solo chi non sa riconoscere la continuità storica tra quella morte violenta e ingiusta, che pure ci ha garantito la salvezza, e l'infinita serie di morti violente e ingiuste, "bianche" o insanguinate, che rappresentano la più tragica condanna della storia, può nutrire e conservare il gusto macabro della retorica.

Mistero della croce... " Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori, familiare con il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia... Maltrattato, si è umiliato, non ha aperto la bocca, come agnello condotto al macello..." (cfr. Is 53). Insondabile mistero della croce. È venuto il momento, e per noi è oggi, in cui non è più sufficiente, come fecero gli Ebrei nel deserto, fissare il serpente di bronzo, innalzato da Mosè, per essere liberati dal morso letale dei serpenti. Occorre tollere, cioè caricarci di questa croce, come il Maestro che ha preso su di sé (e non "tolto" i peccati: anche nel linguaggio liturgico spesso esistono retropensieri...) il peccato del mondo, caricare questa croce sulle nostre deboli spalle. Occorre sempre partecipare alla Passione. Stare con quel nostro Dio che spoglia se stesso. Per poter aspirare alla salvezza.

Scrive Raniero La Valle, in una sua recente newsletter "Prima loro": «Ma allora dov'è la salvezza da un Dio che spoglia se stesso? "Mistero della fede", dice la liturgia cattolica. Ma non senza di noi. La salvezza è che neanche noi lo abbandoniamo. Il Dio che non dobbiamo abbandonare non è l'onnipotente, onnisciente, perfettamente buono ed eterno, che inaugura "il monoteismo come problema politico", ma è il Dio assetato, vilipeso, povero e crocefisso che sussiste anche nell'ultimo dei migranti e delle vittime. Se non lo abbandoniamo nella sua angoscia, se ne riconosciamo l'innocenza, se non smettiamo di parlare con lui, saremo con lui nel suo regno, comunque si voglia chiamare il paradiso. Se non abbandoniamo i martirizzati di Gaza, se salviamo i deportati di Trump, se preserviamo i candidati ad essere uccisi di tutte le guerre, se mettiamo per primi i poveri, se lo Stato sociale sceglie " prima loro", come in Italia sta scritto anche in Costituzione, ci salviamo anche noi, si salvano tutti».


Traccia per la revisione di vita

- Sappiamo riconoscere e accettare la nostra croce, quella che quotidianamente ci è dato di portare?

- Sappiamo riconoscere le croci del mondo, i peccati che quotidianamente infieriscono nei confronti dei poveri, degli esclusi?

- Che cosa facciamo concretamente per assumerli e per contribuire a portare le croci di chi ci vive accanto?



Luigi Ghia Direttore di Famiglia domani