Omelia (06-07-2025) |
don Alberto Brignoli |
I nomi scritti nei cieli Quando si parte per un'esperienza di missione, e soprattutto quando ci si trova sul posto a operare, si ha sempre un po' la sensazione di essere uomini e donne "in prima linea", di frontiera, chiamati ad affrontare situazioni difficili che in altri luoghi e in altre situazioni non si affrontano: e allora sorge un po' di "orgoglio personale" che porta noi missionari (chiedo scusa, ma io non smetto di sentirmi tale...) a sentirci protagonisti indispensabili di ciò che stiamo facendo. Ci sentiamo talmente protagonisti che arriviamo al punto - quando ci è chiesto di rientrare o di cambiare ambito della missione - di opporre molte resistenze, convinti del fatto che, se veniamo via noi, crolla tutto. In parte può essere vero, e in vari casi l'abbiamo pure verificato, nel corso degli anni. Ma non possiamo certo dire che questo sia dovuto alle inadempienze di chi è venuto dopo di noi, soprattutto quando fa parte del clero o del laicato locale delle Chiese del Sud del mondo. Lo si deve, invece, soprattutto a questo nostra "mania di protagonismo", che in molti momenti ha lasciato poco spazio all'iniziativa della chiesa locale, impedendole di divenire soggetto (e non solo oggetto) della missione. E allora il Signore, nel Vangelo di oggi, ci dà una bella lezione: di fronte ai discepoli che esultavano perché addirittura i demoni si sottomettevano a loro, afferma che la loro gioia non deve derivare da quello, quanto piuttosto dalla ferma convinzione che chi è protagonista del Regno è il Signore. È a lui che dobbiamo rendere conto, ed è solo preoccupandoci che i nostri nomi siano scritti nei cieli che compiamo la missione che egli ci ha affidato. Da questa convinzione scaturiscono tutte quelle "consegne" che il Signore dà ai suoi settantadue discepoli quando li invia: mitezza, povertà, essere portatori di pace, sapersi accontentare, interessarsi dei bisogni degli altri, annunciare il Regno, non lasciarsi travolgere dal facile successo, sapere che ciò che conta è essere membri del Regno: a ragione, questo può essere considerato il "decalogo" della missione secondo il Vangelo di Luca. La mitezza ci ricorda che non siamo i padroni della situazione, e che non possiamo mai imporre a nessuno il messaggio del Vangelo, che alla fine ha due soli temi: la Pace e la vicinanza del Regno di Dio a ogni uomo. Il Vangelo è Pace, non è imposizione, non è legge, non crea dipendenza o schiavitù. Il Vangelo è un messaggio di pace per uomini liberi e che crea uomini liberi. E libertà significa indipendenza da ogni forma di schiavitù, anche quella subdola e accattivante delle ricchezze e dei beni materiali. Infatti, oltre a chiedere ai suoi discepoli di essere portatori di pace, il Maestro li invita a sapersi accontentare di quanto ogni uomo è capace loro di offrire: in buona sostanza, chiede ai suoi discepoli di vivere la povertà nel senso più originario e profondo del termine, ovvero come la capacità di comprendere che tutto è un dono, che tutto ci viene da Dio, che nulla ci appartiene, e per questo nulla possiamo pretendere di avere o di portarci via da questa terra. Allora, non servono "né borsa, né sacca, né sandali", perché non sono i beni che possediamo a darci sicurezza nell'annuncio del Vangelo. E questo, quando si fa missione, ma più in generale quando si è cristiani, è ciò su cui ci giochiamo la nostra credibilità e la veridicità della nostra testimonianza. Si fa sempre più urgente, per la Chiesa, un ritorno alla povertà: non una povertà che sia mancanza assoluta di tutto, o rinuncia a ciò che si è costruito magari anche con fatica e sacrificio, ma una povertà interiore nella quale Dio sia rimesso al centro di ogni cosa, e soprattutto al centro della vita del cristiano, che non può fare a meno dei beni materiali per sopravvivere, ma non ne può neppure fare il motivo della propria sussistenza. E soprattutto, la Chiesa non può entrare, a causa dell'uso dei beni materiali, in quelle logiche di potere o ancora peggio di corruzione che diventano una contro-testimonianza evangelica oltre che un segno di umana (se non addirittura disumana) disonestà. Ma ancora di più, il cristiano, il discepolo, l'annunciatore del Vangelo non può mai agire come padrone della missione e del compito che gli è stato affidato. Ritenere l'annuncio del Vangelo opera delle nostre capacità, e condizionare la buona riuscita dell'annuncio all'utilizzo delle risorse investite per questo, vuole dire non avere compreso la cosa più importante per il discepolo: che l'artefice della missione e dell'annuncio è Dio. È Dio che detta le regole del gioco; è il Maestro che indica la via; è il Signore che guida i passi del discepolo in una via fatta senza dubbio di croci, ma fatta anche della soddisfazione più grande e dell'unica gioia che il discepolo deve provare, ovvero rallegrarsi che il suo nome sia scritto nei cieli. |