Omelia (26-02-2017) |
don Alberto Brignoli |
A chi dai il tuo "Amen"? Una delle parole ebraiche che maggiormente conosciamo e usiamo nella Liturgia è certamente "Amen". L'abbiamo generalmente tradotto con "Così sia", ovvero come affermazione di certezza, di certificazione di quanto abbiamo ascoltato, vissuto, celebrato, proclamato: è un modo semplice ed efficace di dire che "abbiamo fatto nostro qualcosa", l'abbiamo assimilato. E in genere, lo diciamo delle cose di Dio: anzi, mi viene quasi da dire che lo diciamo di Dio stesso. Dio è il nostro "Amen", il nostro "sì", la nostra "sussistenza", ciò in cui abbiamo posto la nostra fiduciosa certezza. Ma la Parola di Dio ci dice che nella nostra vita non abbiamo solo Dio come nostro "Amen": ci capita spesso, infatti, di dire "Amen" a molte altre cose, a volte antitetiche allo stesso Dio. Ricorderete certo che il brano che abbiamo letto oggi nella vecchia traduzione usava un termine (che tra l'altro è l'originale trascrizione greca di un termine ebraico) che ci faceva sorridere, ma che poi è entrato nel nostro lessico comune, forse per alcune assonanze con parole che richiamano l'abbondanza: "Non potere servire Dio e Mammona" (oggi a ragion veduta tradotto con "ricchezza"). Chi è "Mammona"? Da dove salta fuori? Senza dubbio, nella tradizione ebraica "Mammona" è divenuta la concretizzazione quasi personificata di un concetto che fa parte piacevolmente ma anche drammaticamente della nostra vita, ossia quello di ricchezza, quello dell'insieme dei beni materiali, spesso e volentieri oggetto compulsivo dei nostri desideri, spinto al punto da volerne accumulare sempre di più, fino a trovarci nell'abbondanza, nella "Mammona", una sorta di certezza di stabilità, avendo assimilato la quale non abbiamo nulla da temere per la nostra vita. Una specie di "Amen", ci verrebbe da dire, simile e antitetico all'Amen che diciamo a Dio. Sennonché, in ebraico, "amen" e "Mammona" hanno proprio la stessa radice etimologica, ovvero indicano originariamente lo stesso concetto: la stabilità, la fiducia incondizionata, la nostra sussistenza. "Mammona" è certamente la ricchezza; "Mammona" è certamente anche un "Amen": per analogia, quasi per fatale sillogismo, anche la ricchezza può divenire un "Amen". E come diciamo "Amen" a Dio, diciamo "Amen" anche a Mammona-ricchezza. Come se i due "Amen" fossero compatibili. Ma Gesù, nel Vangelo di oggi, è categorico: "Non potere servire Dio e la ricchezza". Non possiamo, in definitiva, dire a entrambi "Amen": o l'uno o l'altro, non c'è via di mezzo. Qual è il nostro "Amen"? Qual è il mio, il tuo, l'"Amen" di ciascuno di noi? Dove poni la stabilità della tua vita, la certezza delle cose che fai? Nei tuoi beni materiali? Nel frutto delle tue fatiche? Nella ricchezza - si spera la più possibile onesta - che hai accumulato in una vita di lavoro? Fallo pure: sappi che Dio non potrà più essere il tuo "Amen". Aut - aut: o ti affidi a Dio, o ti affidi alla ricchezza. Perché così? Gesù ce lo spiega in dieci versetti attraverso la penna di Matteo, che di "Amen" detti alla ricchezza se ne intendeva. Tutto parte dallo spirito delle Beatitudini, che proclamava "beati i poveri in spirito" proprio sulla base del loro affidarsi completamente a Dio e alla logica del Regno. Dobbiamo, quindi, fare affidamento non su ciò che possediamo e accumuliamo per noi stessi, ma su ciò che, possedendolo, condividiamo con gli altri. E Gesù ci chiede di fare questa scelta perché, nella misura in cui noi ci prendiamo cura degli altri, anche Dio si prende cura di noi: e lo fa veramente, perché se per ribadire questo concetto Gesù dice per ben tre volte "non preoccupatevi", stiamo pur certi che ci sta dando non una speranza in un domani migliore (per il quale non è il caso di affannarsi...è già pesante l'oggi, manca anche di pensare al domani... "il domani si preoccuperà di se stesso"), ma una certezza assoluta in un presente che ha senso solo se gettato nelle grandi braccia della Provvidenza di Dio, talmente amorevoli che possono addirittura essere più grandi e rassicuranti dell'amore di una mamma per il suo bimbo (per riprendere Isaia nella prima lettura). La prova di tutto questo? Semplicissimo: è sufficiente guardare gli uccelli del cielo e i fiori del campo, che vivono senza bisogno di affannarsi per mangiare o per essere rivestiti di bellezza. Attenti, però, a non fare di questo richiamo alla natura una sorta di "pseudo francescanesimo", oppure assimilarlo al naturismo "hippies" degli anni della nostra gioventù. Nulla di tutto questo, anzi: in quegli "uccelli del cielo che non seminano e non mietono", la Bibbia non vedeva teneri passerotti da prendere tra le mani accarezzandoli, bensì li relegava alla categoria degli animali "inutili", perché non servivano per il lavoro dei campi, e pure le loro carni non erano certo un'opportunità per sfamare un clan o una famiglia. In quei "gigli del campo che non faticano e non filano" ci sarà pure l'immagine della bellezza e dei colori, ma non il simbolo della stabilità e della durata nel tempo, visto che erano fiori che duravano giusto l'arco di una giornata e poi diventavano "erba del campo da gettare nel forno", perché spesso all'epoca venivano utilizzati come combustibile alla stregua della legna secca. Eppure, anche dietro di loro c'è la presenza provvidente di Dio. Quindi, se Dio si preoccupa delle cose inutili ed effimere della Creazione, volete che non si occupi del vertice della Creazione, di colui che ha creato a sua immagine e somiglianza? È una domanda dalla risposta scontata: e allora, iniziamo a dare per scontato anche il nostro "Amen" a Dio, invece di continuare a pensare che la ricchezza è il nostro "Amen", e che senza l'accumulo dei beni materiali non possiamo vivere bene. Per fortuna, sta arrivando la Quaresima...ci voleva, una bella iniezione di essenzialità! |