Omelia (25-09-2016) |
don Maurizio Prandi |
La maschera o il volto... le cose o le relazioni Continua, nella liturgia domenicale, quel filone che domenica scorsa è stato aperto e che ci aiuta a scoprire sempre di più il nostro volto di discepoli, filone importante perché ci fa riflettere sull'importanza che diamo alle cose, alle ricchezze. Ciò che davvero conta, ci dice la liturgia, è non spostare la nostra attenzione da ciò che veramente è essenziale alla nostra vita: la relazione. Ricorderete che domenica scorsa ci siamo lasciati con lo sguardo rivolto al futuro, la domanda di quell'amministratore: cosa farò? E l'importanza di avere sogni, desideri; subito allora percorro la seconda lettura che su questo ci dà un grande aiuto: Paolo infatti ci dice quanto sia importante nella vita avere delle mete, perché vivere senza obiettivi non è possibile; ci dice anche che questi obiettivi non li raggiungiamo da soli, infatti non dice devi esser giusto, fedele, paziente, mite, ma dice: tendi alla giustizia, alla pietà, alla mitezza, alla fede, alla carità, alla pazienza. Mi piace molto questo, perché è un richiamo alla nostra fragilità e debolezza; non ci è chiesto di essere dei super eroi, chi è chiesto di "tendere", cioè dirigere la nostra vita lì, inclinarla lì, cercando di raggiungere la vita eterna che è dono di Dio perché è Lui, dice s. Paolo, che dà vita a tutte le cose e prendendoci per mano fa con noi quel pezzo di strada (il tendere porta con sé anche l'idea del camminare credo) che da soli non saremo mai capaci di fare.
L'esempio del vangelo che abbiamo ascoltato mi pare, in merito a questo, chiarissimo: hai passato la vita a bearti del colore dei tuoi vestiti, la porpora preziosissima e con un costo altissimo...; pensate che nel Primo Testamento si racconta che gli ebrei potevano permettersela soltanto in un caso: per ornare la "Tenda del Convegno", che ospitava la presenza del Signore! Hai passato la vita a bearti della qualità del tessuto dei tuoi vestiti: il bisso era un tipo particolare di lino, prezioso e splendente; hai passato la vita a ostentare una quantità di cibo tale da permetterti di dare una festa al giorno e di te, cosa rimane! Nulla, nemmeno il tuo nome. Ecco perché Gesù condanna la ricchezza: perché ambigua, poco chiara, diventa un idolo e ti toglie il nome, il volto, le tue caratteristiche. Il ricco del vangelo infatti, come ci ricorda la preghiera colletta di quest'anno, non ha un nome. Il ricco non ha nome perché il denaro si sostituisce all'identità di una persona, domina la sua coscienza, detta la sua legge, ispira i pensieri; in modo particolare, nel caso odierno, il denaro acceca, impedisce di vedere. Proviamo allora a chiederci cosa significhi avere un nome. Significa avere un'identità, essere "qualcuno", ma questo è possibile solo se c'è chi ce lo riconosce: nessuno si dà il nome da sé, sono gli altri a dirci chi siamo, a consegnarci la nostra identità. Per questo i genitori scelgono il nostro nome, perché è tutt'uno con il dono della vita. A questo punto possiamo chiederci come mai il ricco non abbia nome: forse perché lui è semplicemente le sue cose! Trovo che qui ci sia un grande ammonimento: non possiamo lasciare che le cose riempiano la nostra vita, altrimenti rischiamo di essere nessuno. Le cose, per quanto grandi, belle, speciali, o tante, non possono darci un'identità. La nostra vita, solo piena di cose, è come una bellissima casa splendidamente arredata, magari pulita e in ordine, ma disabitata: che tristezza! Noi non siamo fatti per le cose, ma per le relazioni.
|