Omelia (17-10-2004) |
padre Ermes Ronchi |
Se pregare fa rima con amare Pregare sempre, senza stancarsi. Non un obbligo, ma una necessità per vivere, come respirare. «Dammi uno che ami e capirà. Dammi uno che arda di desiderio e comprenderà» (Sant'Agostino). Pregare infatti non è «dire preghiere». Pregare è come voler bene. E, se vuoi bene a qualcuno, è «notte e giorno», un «grido continuo»; è uno stato del cuore, e non si stanca. Racconta Tommaso da Celano che «frate Francesco alla fine non pregava più, era diventato preghiera». Per noi invece è comune esperienza che Dio stanca, che pregare stanca. Parlavo un giorno con un monaco trappista dell'abbazia d'Orval, gli chiedevo consigli per i giorni della fede difficile: «E quando ci si stanca di Dio? che cosa fare in quei momenti?» Mi rispose raccontandomi una parabola: «Mettiamoci nel corteo che accompagnava Gesù verso Gerusalemme, nel giorno delle palme. C'è chi applaude, chi stende i mantelli, chi è salito sugli alberi, chi è vicino a Gesù, chi fatica a tenere il passo. E poi c'è un asino. Che fatica più di tutti, che sente tutto il peso del corpo di Gesù e della salita, ed è proprio lui il più vicino al Signore. Quando senti fatica o stanchezza, quando senti il peso di Dio, in quel momento sei come l'asino di Gesù, il più stanco perché il più vicino al Signore. L'importante è continuare, appena dopo c'è Gerusalemme». Appena dopo. Ma tutti sappiamo che Gerusalemme è tanto lontana. Quante volte «le nostre preghiere sono volate via come uccelli e nessuna è tornata indietro a portare una risposta» (G. Von le Fort). È l'esperienza della vedova della parabola: non ha nulla da regalare, è povera come la speranza, senza difesa come l'innocenza. Ma ha una forza vincente: fede nella giustizia nonostante tutto, fiducia nel giudice nonostante tutto. Il miracolo vero è già accaduto, è la fame di giustizia che non si è arresa all'avversario, che non ha ceduto al lungo silenzio del giudice. Questo è il modo con cui Dio «fa giustizia prontamente». Il «pregare senza stancarsi» evoca allora ben più della stanchezza, rimanda all'abbandono delle armi da parte di un soldato durante il combattimento; dice: pregate senza deporre mai le armi, senza disertare. Il nostro compito non è forzare il ritardo di Dio, ma rimanere nel vivo della corrente, sulla breccia, a forzare l'aurora di un mondo più giusto. Il nostro compito non è essere esauditi, ma non arrenderci ad una storia di ingiustizia, non abbandonare la rotta. E poi andare e riandare al Signore, perché amo anche il suo silenzio, e se parla è per amore, e se tace è ancora per amore. E sentire che Dio stesso ha sete della nostra sete. Dio desidera che noi abbiamo desiderio di lui (Ccc n. 2560). E alla fine, la preghiera non ha neppure più bisogno di ottenere ciò che chiede. Perché essa ottiene Dio stesso. |