Omelia (13-04-2014)
dom Luigi Gioia
La Passione del Signore

C'è qualcosa che l'uomo della Bibbia teme ancora più della sofferenza fisica, del dolore e delle prove della vita. C'è una forma di sofferenza più grande e più profonda legata direttamente alla relazione con il Signore. Una forma di sofferenza che più di ogni altra chiude l'orizzonte e fa paura. Questa forma di sofferenza è espressa ogni volta che vediamo il salmista gemere in espressioni di questo tipo: Perché Signore, ti tieni lontano, nel momento di pericolo ti nascondi? oppure: Dirò a Dio, mia roccia, perché mi hai dimenticato? Perché triste me ne vado, oppresso dal nemico? oppure ancora in un altro salmo: Perché sono colpito tutto il giorno e fin dal mattino sono castigato? Se avessi detto: "Parlerò come loro", avrei tradito la generazione dei tuoi figli. Riflettevo per comprendere, ma fu una fatica ai miei occhi.
Questi versetti di salmi esprimono l'esperienza della confusione, della vergogna, due parole molto importanti nell'Antico Testamento. Confusione e vergogna: "Ho sperato nel Signore, ho creduto nella sua parola, mi sono fidato di lui, mi sono appoggiato su di lui, ma ecco che sono umiliato. Ecco che trionfa' chi fa il male, chi non crede in te, chi non ha messo in te la sua speranza. Ecco che sono confuso, che non capisco più nulla, che sono tentato di vergognarmi della mia fede".
Ciò che umilia profondamente, ciò che riempie di confusione e di vergogna l'uomo biblico - e questo è il contesto nel quale queste due parole sono spesso utilizzate -, è il fatto di non capire: Riflettevo per comprendere, ma fu una fatica ai miei occhi.
Ci sono, nella vita, delle forme di dolore molto acute, lancinanti, come ad esempio quella del parto o ancora come quella di un lavoro poco gratificante e duro. Ma nel caso del parto, sapere che è per avere un figlio, oppure nel caso di un lavoro duro o poco gratificante sapere che è per garantire alla propria famiglia la sussistenza necessaria, aiuta, da forza, permette di affrontare la prova, la sofferenza, le difficoltà con coraggio. Nulla, infatti, ci è più di conforto, nei momenti difficili, del fatto di capire il senso di quello che viviamo, di vedere dove ci conduce, di avere una prospettiva positiva a cui anelare e in cui sperare.
La relazione con il Signore, la vita di fede, la parola di Dio danno le chiavi per capire, ci aprono al senso più profondo della vita e ci permettono di affrontare con serenità anche ciò che tutti temiamo di più, la morte stessa. La fede è più forte della morte. Il senso che dà la fede permette di non restare confusi, senza parole, senza speranza, davanti alla morte.
Però ci sono delle circostanze nella vita, ci sono delle situazioni, nelle quali proprio chi mette tutta la sua fede e tutta la sua speranza in Dio, proprio chi cerca maggiormente di affidarsi a lui, proprio chi -magari con i suoi limiti, ma mettendoci tutta la buona volontà- cerca di fare la volontà di Dio, ebbene, proprio questa persona ad un certo punto vede l'orizzonte chiudersi. Non capisce più quello che sta succedendo, comincia ad essere tentata di dubitare dell'amore del Signore, comincia a dubitare che il Signore abbia veramente il controllo della storia. Ed in queste occasioni, lentamente, spesso con grande sofferenza, si insinua il tarlo del dubbio. A volte, quando la sofferenza è particolarmente acuta, quando l'angoscia è profonda, quando le situazioni diventano veramente difficili, si può scivolare nella disperazione.
Basta guardarci intorno. Si può andare dai casi generali ai casi più particolari.
Quanto spesso si assiste impotenti al trionfo delle logiche di disonestà e di menzogna. Quanto spesso vediamo la giustizia calpestata. Oppure quanto spesso nelle nostre vite vediamo che proprio lì dove abbiamo cercato di fare il bene, raccogliamo il male, il rifiuto. Oppure mali inaspettati ci affliggono, non solo fisicamente, ma soprattutto moralmente e ci schiacciano, fino a toglierci anche la voglia di pregare, fino a corrodere ogni slancio, ogni entusiasmo. In questi frangenti precipitiamo in una grande oscurità e impotenza, la speranza vacilla, il senso di quello che viviamo ci sfugge e soprattutto siamo tentati di dubitare di Dio. Diventa vera per noi allora l'espressione del salmista citata sopra: Riflettevo per comprendere, ma fu una fatica ai miei occhi. In queste situazioni riflettiamo per comprendere, per trovare il senso di quello che viviamo alla luce della fede, alla luce della Parola di Dio, ma è una fatica ai nostri occhi e restiamo senza risposte.
Ma proprio nel momento di più grande oscurità, lentamente, faticosamente, il Signore ci conduce in una dimensione nuova, più vera, della relazione con lui. Il drammatico racconto della Passione di oggi ci aiuta a comprendere come questo avviene.
In questi momenti, prima di tutto, è fondamentale non colpevolizzarsi. Quando vediamo il nostro cuore vacillare, quando vediamo che in questi momenti perdiamo lo slancio che aveva animato fino ad allora la nostra vita di fede, quando vediamo che l'entusiasmo che ci aveva sempre caratterizzati si diluisce, quando vediamo che non riusciamo a reagire positivamente come vorremmo - ebbene, in questi momenti non dobbiamo temere, perché il Signore non solo non ci condanna, non solo non ci giudica, ma ci fornisce lui stesso le parole per esprimere questa sofferenza, per trasformarla in preghiera. In questi momenti di impotenza tutto quello che possiamo fare è cercare di trasformare questa impotenza in preghiera.
In particolare ci sono le parole dei salmi citati prima, ma soprattutto quello che la liturgia di questa domenica delle palme ci propone oggi. Le parole che ci sono offerte sono quelle del salmo 21, le stesse che Gesù ha pronunciato sulla croce: Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?
In questo la nostra fede e la nostra relazione con il Signore sono veramente grandi: in esse non vi è spazio solo per il ringraziamento e la lode o solo per il lamento e la supplica. Nella nostra fede, nella nostra preghiera, nella nostra relazione con il Signore, vi è spazio anche per la delusione, vi è spazio per l'amarezza e vi è spazio anche per la collera. Non bisogna aver paura di dirlo: vi è spazio anche per la disperazione. Sembra un paradosso, ma è vero: nella nostra relazione con il Signore vi è spazio anche per la disperazione.
E' un errore cercare di attenuare il carattere inaudito, scandaloso, del grido di Gesù sulla croce, del Figlio che dice al Padre, di Dio che dice a Dio: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Colui che è venuto come nostro modello, colui al quale dobbiamo guardare per capire cosa voglia dire essere figli del Padre ci appare in questo momento supremo non in una serena accettazione della volontà di Dio. Al contrario, lo vediamo gridare la sua disperazione, il suo dolore, la sua sofferenza, la sua solitudine. Il Figlio dice al Padre: perché mi hai abbandonato? Non dobbiamo cercare di attenuare lo scandalo di questo grido. Se il Signore ha spinto il suo abbassamento, la sua confusione, la sua umiliazione e la sua sofferenza fino a voler fare l'esperienza di questa disperazione, fino a voler gridare questa disperazione, abbiamo il dovere di prenderla sul serio. Abbiamo il dovere di accettarne le conseguenze.
La vita di fede non è una vita beata, nella quale possono succedere delle cose che ci affliggono esteriormente, ma con la perenne garanzia della serenità e della pace interiori. Purtroppo no. La vita di fede non ci risparmia queste esperienze limite, non ci risparmia questa solitudine, non ci risparmia questa angoscia. La vita di fede ci chiede, non di ignorarle, non di sminuirle, ma veramente di gridarle, proprio come ha fatto Gesù. Gesù non ha cercato di nascondere né a se stesso, né al Padre, né a noi, questo momento di disperazione, questo momento di angoscia, questo momento di solitudine, ma lo ha manifestato e lo ha addirittura gridato. Quindi se lo ha fatto lui è perché vuole che ci sentiamo autorizzati a farlo anche noi, in lui, con lui, grazie a lui.
C'è una frase del salmo 66 che rischia di passare inosservata, ma che forse meglio di qualunque altra esprime questo aspetto paradossale della relazione con Dio e della vita di fede: persino la collera dell'uomo ti da gloria. Questa è parola di Dio. Questa frase del salmo ci insegna che diamo gloria a Dio essendo veri, essendo autentici davanti a lui. Diamo gloria a Dio lodandolo, quando siamo nella gioia o quando sentiamo o scopriamo i motivi per lodarlo; diamo gloria a Dio ringraziandolo per i suoi benefici; diamo gloria a Dio adorandolo per la sua grandezza. Ma siamo veri, siamo autentici, nella nostra relazione con Dio, diamo gloria a Dio soprattutto quando abbiamo il coraggio di presentargli la nostra umiliazione, la nostra incapacità di capire, la nostra sofferenza, la nostra rivolta interiore, la nostra collera.
In questa settimana santa lasciamo che il Signore ci liberi da tutto quello che ci ostacola nella relazione con lui. E questo grido di Gesù sulla croce: Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? ci aiuti a capire fino a che punto il Signore vuole essere con noi e vuole che noi restiamo con lui. Il Signore vuole essere con noi fin nella tenebra nella quale siamo tentati di dubitare della sua presenza, vuole che noi restiamo con lui in questo momento nel quale siamo esposti a questo grido di disperazione, a questo grido di solitudine, di angoscia che dobbiamo saper accogliere come un grido che è stato fatto per noi e che Cristo è sempre pronto a ripetere con noi per liberarci.