Omelia (06-04-2014) |
don Raffaello Ciccone |
Commento su Es 14,15-31; Ef 2, 4-10; Gv 11,1-53 Esodo. 14, 15-31 Questo racconto è fondamentale nell'esperienza di Israele. E' il punto di riferimento più alto nella memoria, per sentirsi garantiti da Dio che ama il suo popolo, lo vuole libero, fiducioso nel suo rapporto dell'Alleanza, coerente, nonostante le paure e le difficoltà che crede di trovare. Dio celebra la vittoria sul male e dà la vita al popolo. Mosè è l'interprete della volontà di Dio ed è il mediatore ubbidiente, che opera con responsabilità, poiché Dio è fedele e di Lui ci si deve fidare. La notte incomincia, per gli ebrei in fuga, con il terrore della sconfitta: "Gl'israeliti alzarono gli occhi: ecco gli egiziani muovono nel campo dietro di loro. Allora gli israeliti ebbero grande paura e gridavano al Signore" (14,10). Dalla paura sorge il grido di dolore e quindi la diffidenza verso Dio: "Perché ci hai portati a morire nel deserto?" (v 11). Il racconto vuole garantire il popolo anche sul futuro. Vi potrà ritornarvi nella memoria per trovare fiducia. Ci sono due tipi di racconti. Uno ricorda l'intervento di Mosè che, con il bastone sul mare, lo apre, formando due muraglie di acqua. Gli Egiziani, che si avventano contro, sul sentiero aperto nel mare, vengono travolti dalle onde che si richiudono su di loro. L'altro racconto parla di YHWH che fa soffiare un vento che prosciuga il «mare». Gli Egiziani vi penetrano e sono inghiottiti dal suo riflusso. Sono due tradizioni diverse e, nella seconda, si insiste sulla distruzione del pericolo di essere raggiunti e travolti dalla violenza dell'esercito. Non è possibile determinare il luogo e il modo di questo avvenimento; ma è l'intervento meraviglioso di «YHWH guerriero» (15,3), fondamento della fede ebraica (Dt 11,4;Gs 24,7; cf.Dt 1,30; 6,21-22; 26,7-8). Il miracolo del mare è stato messo in parallelo con un altro miracolo dell'acqua: il passaggio del Giordano (Giosuè 3-4); si uniscono insieme l'uscita dall'Egitto e l'uscita dal deserto per la conquista della terra promessa. Per noi cristiani è figura della salvezza e, più specialmente, del battesimo (1Cor 10,1). Efesini 2, 4-10 Paolo vuole sostenere i fratelli e le sorelle mentre lui stesso è in carcere. Egli paragona il tempo in cui non si conosceva il Signore e il tempo in cui il Signore li ha visitati. "Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati... alla maniera di questo mondo, seguendo il principe di delle Potenze dell'aria, quello spirito che ora opera negli uomini ribelli. Anche tutti noi come loro, un tempo siamo vissuti nelle nostre passioni carnali seguendo le voglie della carne e dei pensieri cattivi: eravamo per natura meritevoli d'ira come gli altri" (vv 2,1-3). Paolo parla alla comunità di Efeso e ricorda la loro condizione di ribellione e di morte, quando seguivano il principe delle potenze dell'aria": l'aria, per gli antichi, è l'abitazione degli spiriti demoniaci. Il principe di questo impero è Satana. Ma poi, Paolo stesso, insieme con i giudei, si riconosce nella stessa situazione dei pagani. Nel ricordo della comune infedeltà denuncia l'impossibilità ad essere fedeli, pagani e giudei, nell'esistenza perché totalmente vinti dal male. Ma qui, nella lettera, Paolo apre come un inno di gioia quando dice: "Dio, ricco di misericordia, ci ha amati e ci ha fatti rivivere in Cristo". In questo testo come nella lettera ai Colossesi (Col 2,12;3,1-4), Paolo sta vivendo un particolare momento di approfondimento e di consapevolezza della propria fede: parla della risurrezione e della glorificazione dei cristiani al tempo passato, come se stesse già vivendoli. Mentre in Rom 6,3-11 e Rom 8,11.17s prefigura queste realtà ultime solo nell'avvenire. Questa riflessione sugli ultimi tempi, come una conquista già presente per la misericordia forte di Gesù, nella propria vita, si sviluppa solo nelle lettere della prigionia. Paolo insiste perché la sua comunità, mentre gioisce della ricchezza che il Signore ha offerto, sappia che sia chiaro, nel loro cuore, che ciò è avvenuto per grazia ed è dono di Dio e non è avvenuto per frutto delle loro opere. E tuttavia chiede che ci si ricordi che è il Signore che ci ha costituiti modello ed esempio della sua bontà, segno della gratuità di cui Dio è generoso donatore. Se non possiamo pretendere di dire che noi siamo venuti nella pienezza della forza di Dio per i nostri meriti, tuttavia abbiamo ricevuto, nel creato, una vocazione particolare: siamo stati "creati per le opere buone" (v 10) che Dio ha preparato e preordinato perché noi le praticassimo. Proprio Paolo, che vive nella fatica della prigione, sente di poter proporre alla sua comunità di essere modello di speranza attraverso il comportamento che viene dalla forza del Signore. Ognuno deve poter sentire la responsabilità perché non possiamo vivere da soli nella libertà di questa grandezza che il Signore ci offre: tutto il mondo ha bisogno del Signore e Paolo è particolarmente consapevole che tutto il mondo ha bisogno di credenti, salvati e fiduciosi in Dio. Giovanni 11,1-53 La risurrezione di Lazzaro è l'ultimo dei sette "segni" che Giovanni racconta nel suo Vangelo e rappresenta il vertice dei doni che Gesù porta all'umanità. Egli è la vita e offre la vita di Dio, lottando e sconfiggendo la morte. Il testo è fondamentalmente teologico e propone riferimenti e indizi per lo meno curiosi. Siamo in una famiglia strana, dove non si nominano né padre né madre, né mariti o mogli o figli: solo fratelli e sorelle, come in una comunità cristiana. Gesù viene avvisato che l'amico Lazzaro è ammalato e non si muove. Si ferma due giorni, poi dice: "Lazzaro è morto e sono contento di non essere stato là". Strano amico. Poi Gesù, finalmente, si incontra con le sorelle ma non entra in casa. Gli incontri con le due sorelle sono sulla strada: protagonista è prima Marta e poi Maria, che però ripete le parole di Marta. La strada è la vita che scorre, l'occasionale, il non previsto, il gratuito. Gesù è sulla strada. Marta ha fede in Gesù; ma si arresta, come sulla soglia di una preghiera impossibile e si trova di fronte alla promessa della risurrezione. Ella, secondo la teologia giudaica, pensa al defunto come ombra che scende nel regno dei morti e che risusciterà nell'ultimo giorno: «So che risorgerà nella risurrezione dell'ultimo giorno» (v 24). Gesù invece annuncia che la risurrezione (v 25) si realizza in Lui stesso, ora. Chi crede in lui non morirà in eterno ma è già passato dalla morte alla vita (5,24;1Gv 3,14). C'è una visione nuova: "Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?» (vv 25- 26; cf.8,51). Marta non può capire, ma fa riferimento alla sua fiducia. "Gli risponde: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo»" (v 27). E qui Giovanni riprende ancora una volta l' «Io sono» (il nome di Dio) per parlare di Gesù. "«Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». (vv26-27). Gesù si appropria del nome altissimo di Dio mentre Marta, per quanto parli del "Figlio di Dio", dice solo di Gesù uno o due dei tanti titoli messianici. Ci riporta "all'inviato, al giusto del Signore". Quando anche Maria lo raggiunge, tra i pianti e le grida urlate dei funerali del mondo medio orientale, anche Gesù versa lacrime ( si usano due verbi diversi del piangere). Le sue sono lacrime silenziose per un amico che è passato attraverso la morte. E ci sono tre imperativi che circondano il grido esplosivo di Gesù che chiama il morto che, perciò, non è più morto poiché all'urlo e alla preghiera di Gesù si alza: "Togliete la pietra", "liberatelo" (Lazzaro è liberato dai legami della morte. Sal 116,3; cf.Sal 18,6; At 2,24), "lasciatelo andare". Questo ordine contro la morte può avere almeno due livelli di lettura. Il primo impegna a liberare Lazzaro dalle bende mortuarie perché possa riprendere la vita di prima. Il secondo livello chiede di passare nella dimensione della fede. Perciò lasciate che viva felice nella sua nuova condizione, per cui la vita eterna è già cominciata e non ha più senso piangere senza speranza, perché, in realtà, la morte non è più la fine e nemmeno un limite invalicabile. |