Omelia (31-10-2010) |
don Alberto Brignoli |
Missione e dialogo: ritorniamo a "far vedere Gesù" Non è infrequente incontrare persone che hanno come hobby personale quello del "mugugno", del "mormorio", del "chiacchiericcio": persone abituate a parlare (ma soprattutto a "sparlare") di tutto e di tutti, persone a cui non va bene mai nulla, persone che si lamentano se qualcuno fa qualcosa, e che si lamentano allo stesso modo se questo "qualcuno" fa l'esatto contrario. Così... forse solo per un po' di spirito di contraddizione o magari perché non trovano di meglio da fare nella vita. A me hanno dato sempre l'impressione di essere persone profondamente infelici e incapaci di accogliere in sé qualsiasi elemento di ottimismo che li possa portare a guardare la realtà con occhi diversi, e quindi anche a offrire opportunità di riscatto a situazioni umane che - in apparenza - sembravano totalmente compromesse. Hanno da ridire su tutti, ma ovviamente è pane per i loro denti parlare male di chi si comporta male. E anche di chi cerca di aiutare coloro che si comportano male a dare una svolta alla loro vita. Insomma, qualcosa di simile alla Gerico dei tempi di Gesù, dove "tutti" mormoravano: "È entrato in casa di un peccatore!". L'iniziativa di Gesù che va a casa di Zaccheo per poter imprimere una svolta alla sua vita è giudicata negativa così come era giudicata negativa (può darsi anche a ragion veduta) la condotta poco onesta del capo dei pubblicani. Colpisce il fatto che "tutti" in quella città mormoravano contro l'atteggiamento di Gesù, quasi a dire che questo modo di fare è tanto diffuso quanto difficile da scalfire. All'interno della Chiesa stessa, i tentativi di andare incontro alle persone che fanno grande difficoltà a vivere in maniera onesta i valori morali e la stessa fede sono spesso guardati quantomeno con sospetto da molti "giusti" che si ritengono migliori degli altri, come diceva il Vangelo di domenica scorsa. E allora, se un sacerdote avvicina qualche soggetto socialmente a rischio viene considerato connivente con lui (ma verrebbe accusato di non fare nulla per lui, se non cercasse di avvicinarlo...); se una persona con una situazione familiare difficile cerca di reinserirsi nella comunità in maniera attiva viene considerato un "irregolare" che non può certo dare buoni esempi; se qualche persona dal passato poco chiaro mostra segni di conversione viene stigmatizzato come "il lupo che perderà il pelo ma non il vizio", e così via. Personalmente, sono convinto che la dimensione missionaria della nostra fede come testimonianza del Vangelo ad ogni uomo debba tener conto anche - e oserei dire soprattutto - di questa dimensione dell'accoglienza, del dialogo, della riconciliazione, di un annuncio della salvezza che aiuti le persone, per quanto possano essersi sentite lontane da Dio, a sentirsi poi accolte da lui, per continuare a proclamare, come Gesù a Zaccheo: "Oggi per questa casa è venuta la salvezza". Il nostro essere missionari non può farci dimenticare che siamo chiamati prima di tutto ad andare in cerca di chi fa fatica, di chi è e si sente perduto. Predicare il Vangelo ai "nostri", ai "vicini", a quelli "che sono sempre con noi" è facile, e pure gratificante: molto più impegnativo, ma certamente più missionario, è andare ad annunciare il Vangelo a chi non è "dei nostri", è "lontano", ci rifiuta e magari anche ci osteggia. Dio non dispera mai di potersi riconciliare con chi si è allontanato da lui, perché - come ci ricorda la prima lettura - egli "ha compassione di tutti, chiude gli occhi sui peccati degli uomini, non prova disgusto per nulla di ciò che ha creato, altrimenti non l'avrebbe nemmeno creato". Ed egli si comporta così, in fondo, perché è "amante della vita". Chi - come Dio - ama la vita non lascia nulla d'intentato perché possa rinascere vita anche da apparenze di morte. Capisco che chi abbia sperimentato sofferenza o sopruso da parte degli uomini abbia spesso perduto fiducia nell'uomo e nelle sue azioni. Penso a donne o uomini traditi dai rispettivi partner e che perdono fiducia nei confronti dell'amore di coppia; penso a donne che hanno subito violenza e che non vogliono più sentire parlare di gesti d'affetto; penso a bambini lasciati a se stessi che non vogliono sentire parlare di famiglia; penso a persone ingannate da presunti amici che non credono più all'amicizia, e via dicendo. Ma credo che sia compito di noi cristiani dimostrare di essere missionari anche in questo: nell'aiutare ogni uomo e ogni donna a riconciliarsi con se stessi, con Dio e con gli altri, creando in loro la forza necessaria a ridare e a ridarsi una possibilità di riscatto. Dobbiamo aiutare ogni Zaccheo a trovare il proprio sicomoro sul quale salire per vedere Gesù; dobbiamo aiutarlo ad accogliere nuovamente Gesù nella sua casa, un Gesù che a volte si manifesta con il volto della persona che soffre e a volte, paradossalmente, con quello della persona che ci fa soffrire, ma che è pur sempre un fratello a cui lasciare aperta la porta del cuore. Ciò che conta - al di là di ciò che abbia compiuto nella sua vita e del male che anche noi abbiamo potuto ricevere da lui - è che anche grazie a noi possa incontrare nuovamente il Signore e compiere gesti che pongano rimedio a tutto ciò che è stato il suo passato. Oggi la Chiesa - laddove è veramente missionaria - è chiamata in diverse parti del mondo a svolgere questa funzione di dialogo, di riconciliazione, di accompagnamento alla riscoperta del volto misericordioso di Dio, soprattutto verso quegli uomini che hanno visto per tanto tempo solo violenza e segni di morte. Penso alla Chiesa di quei paesi dell'Africa dove - in un recente passato - tremendi genocidi e guerre civili senza fine hanno alimentato odi etnici anche tra i membri di una medesima Chiesa Diocesana o di una congregazione religiosa. Penso alla Chiesa di quei paesi dell'America Latina dove la parola d'ordine per rimettere a posto le cose dopo anni di soprusi e tirannie è "giustizialismo", con un desiderio di vendetta talmente forte per cui si cerca di far pagare ad ogni costo qualcosa a qualcuno, commettendo a volte ingiustizie peggiori di quelle che si vorrebbero condannare. Penso alla Chiesa in Medio Oriente, recentemente riunitasi in sinodo, dove la parola "dialogo" viene mal interpretata, dai più aperti come "qualunquismo religioso", dai più conservatori come "perdita di un'identità" ma soprattutto dei privilegi acquisiti, dando così spazio a chi come unico interesse ha quello di un'economia basata sulla guerra. Ma penso anche a situazioni di pace: alla nostra Chiesa italiana, che oggi fa fatica ad essere missionaria non solo "ad extra" (perché ci sono meno missionari che partono), ma anche e soprattutto "ad intra", al suo interno, nel quotidiano di una pastorale carica di attività e povera di spirito, bravissima a pensare iniziative ma incapace a "perdere tempo" ad ascoltare i problemi della gente, pronta ad essere maestra ma pigra nell'essere serva dell'umanità, disposta ad andare a braccetto con i grandi e molto poco disponibile nei confronti dei piccoli che, come Zaccheo, vogliono vedere Gesù ma spesso viene loro impedito. Il decennio che si apre - come segnala il Documento presentato dai Vescovi Italiani in questi giorni - nel segno del rilancio della funzione educativa della Chiesa stimola noi missionari a rilanciare l'educazione alla missionarietà come dimensione essenziale dell'annuncio della Chiesa: perché nessun uomo, mai, venga escluso dall'incontro salvifico con Cristo a causa del mormorio dei benpensanti o del chiacchiericcio dei buontemponi di turno. |