Omelia (25-07-2010)
mons. Roberto Brunelli
Parlare a Dio

Pregare significa parlare a Dio. Ma come può l'uomo, con tutti i suoi limiti, rivolgersi correttamente a Colui che in ogni senso lo sovrasta, al Creatore e Signore dell'universo, a Colui che è la sapienza, la potenza, la perfezione assoluta? Ogni nostra parola rischierebbe di essere inadeguata, o addirittura sbagliata, se lui stesso, attraverso il suo Figlio, non ci avesse illuminato su come formularla. Il vangelo di oggi narra come questo è avvenuto: la frequente visione di Gesù tutto assorto nella preghiera doveva colpire tanto i suoi discepoli, da indurre un giorno uno di loro a chiedergli: "Signore, insegna anche a noi a pregare". Egli non lasciò inascoltata la richiesta, e fu così che noi possiamo rivolgerci a Dio nel modo migliore, con il "Padre nostro". Insegnata dal Figlio stesso di Dio, questa è la preghiera giusta, con la quale tutte le altre devono cercare di essere coerenti; in altri termini, ogni nostra preghiera sarà appropriata se non sarà in contraddizione con questa.
Brevi parole, quelle del "Padre nostro", ma tanto dense che per cercare di chiarirne tutte le implicanze sono stati scritti libri interi. Ma basta la prima parola a suggerirne la straordinaria novità, la consolante bellezza. Mentre tutte le altre religioni guardano alle rispettive divinità con timore e tremore, cercando di placarle con offerte e sacrifici, il Dio rivelatoci da Gesù Cristo è appunto un padre, ed essendo Dio è il padre perfetto: non è lontano né indifferente, non fa parzialità, non è un ragioniere che tiene il conto dei nostri meriti e demeriti, non è un giudice pronto a punire le trasgressioni; è invece colmo di premure, di affetto e tenerezza. Lo spiegano gli esempi che seguono la preghiera, con i quali Gesù invita a rivolgersi a Dio con perseveranza, con fiduciosa insistenza, "perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà invece una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo..."
La preghiera dev'essere perciò caratterizzata da perseveranza e da fiducia, la stessa con cui i fanciulli di questo mondo si rivolgono ai loro genitori. Lo suggerisce anche l'appellativo con cui Gesù ci invita a rivolgerci a Dio: la traduzione abituale è "padre"; ma, nella lingua aramaica in cui egli l'ha detta, la parola è "abbà", che significa padre nella sfumatura confidente usata dai bambini: babbo, papà. Dio è dunque il nostro papà, il quale "sa di che cosa abbiamo bisogno ancora prima che gliela chiediamo" (Matteo 6,8) ma si aspetta che gliela chiediamo perché così gli esprimiamo la nostra fiducia. Può apparire imbarazzante, l'invito a rivolgerci a lui come può fare un bambino ("se non saprete farvi come bambini, non entrerete nel regno dei cieli": Matteo 18,2); ma non lo è, perché non significa rinunciare all'intelligenza dell'adulto, il quale comprende che quel Padre premuroso ma sapiente non dà automaticamente tutto quello che il figlio chiede: gli dà quello che lui - e solo lui - sa essere per il suo bene. La frase riportata sopra e lasciata in sospeso si conclude così: "Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!"
A chi si rivolge a Dio con fiducia, egli garantisce lo Spirito Santo: come dire, il vero bene, la somma dei beni, anche i beni che - a cominciare da quelli spirituali - dovessimo dimenticare di chiedere.