Omelia (12-08-2007)
don Daniele Muraro


Il commento segue lo schema predisposto dall'autore per ogni anno liturgico, che potete trovare cliccando qui.

"Beati quei servi, che al momento del suo ritorno, il padrone troverà ancora svegli", pronti ad accoglierlo e all'opera, così suona la beatitudine espressa da Gesù nel Vangelo di oggi, che fa il paio con l'altra Beatitudine, la seconda di quelle proclamate sul monte: "Beati gli afflitti, perché saranno consolati!".
Un servo finché si mantiene nel suo ruolo di servitore, non può che essere affannato, tutto preso dalle sue incombenze, con poco tempo per distrarsi, preoccupato di cercare non le proprie soddisfazioni, ma di adattarsi alle esigenze del padrone. E questa è la normalità della condizione umana. Davvero quaggiù non mancano i motivi di apprensione e di affaticamento.
La Chiesa è stata accusata nel recente passato di opporsi alle gioie sane del mondo e di presentare una visione negativa della vita, fatta tutta di rinunce e di sacrificî, riducendo questa terra a una immensa valle di lacrime.
Eppure guardandoci attorno, con senso di realismo, dobbiamo riconoscere che per i quattro quinti degli abitanti del mondo le giornate sono pesanti al di là di ogni nostra immaginazione e quello che la Chiesa si limita a consigliare a noi cristiani del primo mondo come esercizio di virtù, per loro è pratica quotidiana, perché non possono fare altro. Digiuni, moderazione nei divertimenti, rinuncia al lusso ostentato, tutto questo è la regola e non l'eccezione per cristiani e non cristiani del terzo e forse anche del secondo mondo.
Anche noi, per quel che ci riguarda, spesso non possiamo fare altro che sottoscrivere le parole di Giobbe: "Non ha forse un duro lavoro l'uomo sulla terra / e i suoi giorni non sono come quelli d'un mercenario? / Come lo schiavo sospira l'ombra / e come il mercenario aspetta il suo salario, / così a me son toccati mesi d'illusione / e notti di dolore mi sono state assegnate."
Questi sentimenti di scoraggiamento e di abbattimento non si adattano al clima di euforia propagandato dai mezzi di comunicazione sociale, ma affiorano e rigurgitano nei fatti di cronaca delittuosa che non mancano mai fra le notizie del giorno.
"I nostri padri nella fede, ci dice la seconda lettura, morirono senza aver conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini" sopra questa terra.
Ci viene da chiederci allora in che cosa consista la consolazione promessa dal Signore a chi si trova afflitto dalle tante prove che non mancano mai nella vita di ciascuno, per ognuno diverse, ma in ogni caso mai leggere o facili da superarsi.
L'esperienza ci dice che il dolore segue inesorabile ad ogni piacere consumato dentro le pieghe di questo mondo. Sembra essere una regola generale, di cui già avevano preso coscienza gli antichi pagani: "Un non so che d'amaro – scriveva il poeta Lucrezio - sorge dall'intimo stesso di ogni piacere e ci angoscia già nel mezzo delle nostre delizie".
Secondo la visione cristiana delle cose, al piacere scelto contro la legge di Dio e simboleggiato dal frutto proibito che Adamo ed Eva gustano, Dio ha permesso che seguissero il dolore e la morte, più come rimedio che come punizione. L'egoismo e l'istinto lasciti andare a briglia sciolta infatti impediscono la convivenza e ipotecano il futuro. Così non è un caso che al piacere vediamo ormai aderire, come la sua ombra, la sofferenza.
Cristo ha finalmente spezzato questa catena. Egli, "in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce". Fece, insomma, il contrario di ciò che fece Adamo e che fa ogni uomo. "La morte del Signore – ha scritto san Massimo il Confessore –, a differenza di quella degli altri uomini, non fu un debito pagato per il piacere, ma piuttosto un peso gettato contro di esso. E così, attraverso questa morte, Gesù cambiò il destino meritato dall'uomo". Risorgendo da morte, Egli inaugurò un nuovo genere di felicità: quello che non precede il dolore, come sua causa, ma lo segue come suo frutto e che propriamente si chiama gioia.
E allora domandiamoci: "Dove andiamo noi cristiani a cercare le nostre consolazioni?"
Non mi sto riferendo ai piccoli sfizi quotidiani, che ciascuno si concede e per lo più sono innocui, ma anche insignificanti, perché se una cosa da poco ci consola allora significa che sono inezie anche le nostre afflizioni. Sto parlando dei punti di appoggio solidi, quelli che permettono di non cadere né barcollare, anche se si viene colpiti negli affetti più cari e nelle aspettative più realistiche.
"Mangiamo e beviamo, perché domani moriremo!", chi ragiona così, dimostra di non avere compreso né accettato il messaggio della resurrezione e di non essere alla ricerca di nessuna patria migliore, ma di accontentarsi di una sistemazione di breve durata.
Esiste questa città dalle salde fondamenta il cui architetto e costruttore è Dio stesso? La Scrittura ci dice di sì. Facciamo fatica ad immaginarla e per questo per essa non ci sacrifichiamo, ma quanto più volentieri non ci sacrificheremmo se già fin da adesso avessimo provato quella consolazione e quella gioia che il Signore dà ai suoi amici. Questo è il segreto dei santi.
Padre Pio diceva: "Ci rianimi il consolante pensiero che, dopo aver asceso il Golgota, si ascenderà ancor più in alto."
"Nel suo pellegrinaggio la Chiesa, dice sant'Agostino, ma noi potremo dire i cristiani, proseguono tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio" e queste consolazioni non mancano mai, perché il vero Consolatore, la Consolazione in persona, è lo Spirito santo e, l'abbiamo sentito due domeniche fa', volentieri Dio ne fa dono a chi lo richiede. Diceva Gesù: tutti cercano di dare del loro meglio ai propri figli "quanto più, allora, il Padre celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!". Mai come a questo riguardo dobbiamo riconoscere: non abbiamo, perché non chiediamo!
Concludo allora con il saluto di san Paolo ai cristiani di Corinto, in cui si dimostra il suo animo di discepolo del Signore e di suo vero ministro: "Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio. Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione."
Potessimo far sempre nostre queste parole, compreso l'impegno successivo: "Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è (sempre) per la vostra consolazione."