Omelia (12-08-2007) |
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L'estate, lo sappiamo, è tempo di partenze e di ritorni. In queste domeniche, mentre le chiese cittadine si svuotano un po', si riempiono le strade e le spiagge. C'è però anche chi non parte. C'è chi è chiamato spesso solo ad aspettare un ritorno. L'attesa di per sé è sempre una dimensione particolarmente difficile. Soprattutto in questo periodo, pensando a chi è in viaggio, si attende una telefonata che rassicuri, un messaggio di saluto, un bussare alla porta che ridona al cuore la pace. Dopo la parabola del ricco stolto e l'invito ad arricchire davanti a Dio, la liturgia di oggi ci parla di attese. In realtà nel vangelo di Luca c'è – tra i due testi – un altro di notevole importanza (cfr. Lc 12,22-31) che fa da ponte: l'abbandono alla provvidenza. Chi pensa agli altri invece che a se stesso, certo che Dio provvede a lui, trova un tesoro inalterabile: l'amore. Il cristiano è colui che è chiamato a vivere ogni istante della sua vita nell'amore, attendendo così il ritorno di Colui che ci ha amato fino alla fine. L'attesa per noi non è densa di preoccupazioni per un possibile non ritorno. Noi sappiamo, siamo certi che Lui tornerà. L'attesa si deve trasformare in un servizio di amore. "attendere – come amava dire don Tonino Bello – è l'infinito del verbo amare". Luca ci presenta così una serie di tre parabole che ci esortano alla vigilanza, tema che ci proietta un po' alla fine dell'anno liturgico e al periodo di avvento. L'introduzione è ricca di tenerezza: Gesù invita a non temere, chiamando i suoi amici e noi "piccolo gregge". Poi Gesù usa immagini un po' distanti, che non indicano un'attesa positiva: il servo che attende il padrone; la casa che attende il ladro. I servi, liberi del padrone, possono finalmente avere un po' di tempo libero, possono anche divertirsi. Sperano che il padrone ritardi. A maggior ragione il padrone di casa non attende proprio il ladro, spera di non avere mai questa visita infelice. Gesù qui non vuole sottolineare chi bisogna attendere, ma piuttosto il modo: la vigilanza. Se i servi e i padroni sono vigilanti verso qualcuno che non si vuole che torni presto o che venga, quanto più lo dobbiamo essere noi verso chi vogliamo nella gioia che venga. Essere vigilanti nei confronti del Signore significa riconoscere che lui viene sempre nella nostra vita, "è alla porta e bussa", dà un senso nuovo ad ogni nostra giornata. Significa stupirsi ogni giorno di colui che siamo chiamati a servire, e che invece ci serve, come nel gesto unico e splendido della lavanda dei piedi nell'ultima cena. Non è forse un'immagine chiara dell'eucaristia, segno quotidiano di un Dio che ci invita a tavola e passa accanto a ciascuno per servirci e per donare se stesso? Eppure, tra tutti i servi chiamati ad attenderlo, c'è il ministero particolare dei responsabili delle chiese: gli amministratori, i pastori. Essi, tra tutti, non solo sono chiamati ad attendere in modo vigilante, ma anche ad aiutare la comunità a vivere in questa dimensione di servizio e di amore. Per questo siamo chiamati a pregare in particolare per i nostri pastori, perché siano sempre pronti a riconoscere e a far riconoscere il passaggio di Dio nella nostra vita. Chi ha sperimentato la forza rivoluzionaria del vangelo non può tornare a casa inerte, insensibile alla voce di chi soffre, disinteressato del problema dell'altro. La fede, di cui ci parla lo splendido testo della lettera agli ebri, ci spinge alla fedeltà, alla fiducia, all'apertura all'altro. Il servo è "fedele" perché il padrone è uno che ci chiama amici, è uno che si è fatto servo. Il servo, divenuto amico, potrà allora attendere Gesù come il ladro, perché egli è l'unico capace di rapire il nostro cuore, Santa Teresa di Gesù Bambino, nella sua agonia, invocava il Signore chiamandolo con amore "il Ladro". Lasciamoci derubare di tutto ciò che ostacola il nostro incontro con Dio, per passare dalla schiavitù al servizio, dalla notte della liberazione alla luce della terra promessa, e porremo il nostro cuore lì dov'è il vero tesoro. Commento a cura di don Paolo Ricciardi |