Omelia (08-07-2007)
mons. Vincenzo Paglia


Domenica scorsa, il Vangelo di Luca ci ha come in­seriti nel viaggio di Gesù verso Gerusalemme. Ognu­no di noi, mentre segue i suoi ritmi di vita, magari già segnati dalle vacanze, è preso dal Signore e coinvolto nel suo viaggio. Non siamo noi i maestri o coloro che scelgono la meta, eppure è un viaggio estremamente coinvolgente. In questa domenica l'evangelista ci as­socia ai settantadue discepoli inviati da Gesù: «Il Si­gnore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi» (v. l). Una prima riflessione riguarda il numero settanta­due. Non è una semplice notazione quantitativa. Set­tantadue erano le nazioni della terra, secondo l'antica tradizione ebraica. È come dire che, fin dall'inizio, l'orizzonte evangelico si apre a tutti i popoli, a tutte le nazioni, a tutte le culture. Gesù, sin dai primi passi del suo viaggio, ha di fronte tutti i popoli, e a loro invia i discepoli. Nessuno deve restare fuori dell'annuncio del Vangelo. La Pentecoste, quando tutte le nazioni che sono sotto il cielo «udirono annunziare nelle loro lingue le grandi opere di Dio» (At 2, Il), inizia già qui, proprio mentre Gesù muove i suoi primi passi. Con lo sguardo rivolto ai confini della terra, Gesù di­ce ai discepoli: «La messe è molta». Nessuno è esclu­so dal suo sguardo e dalla sua preoccupazione. Di fronte a questa moltitudine immensa, con un accento di tristezza, aggiunge: «ma gli operai sono pochi» (v. 2).

Sì, c'è una sproporzione tra l'enorme attesa e il pic­colo numero di discepoli. Ma non si tratta di una sem­plice sproporzione numerica. Il problema sta più a fondo: nella qualità dell'annuncio. Sta qui, io credo, la sfida che dobbiamo raccogliere. Per far fermentare la pasta, senza dubbio è importante la quantità di lievito, ma è decisivo che sia davvero lievito. Ebbene, il pro­blema sta tutto qui, sulla qualità del lievito. In altra parte del Vangelo si legge: «Se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato?» (Mt 5,13). Settantadue discepoli erano per altrettanti popoli. Noi forse siamo pochi e certamente dobbiamo crescere anche nel numero. Ma il problema cruciale non è nel numero bensì nella qualità. Insomma, non è che siamo pochi; forse siamo poco lievito, poco sale, poca luce. Ecco perché attorno a noi si vive spesso co­me se Dio non ci fosse. La messe resta molta, ma gli operai lavorano poco, sono tutti presi ognuno dai pro­pri problemi, dalle proprie preoccupazioni. Sono per lo più tesi a salvare se stessi, ad arare il proprio piccolo campicello, a ritagliarsi la propria piccola tranquillità. E chi non ha bisogno di tranquillità? Que­sta è la preoccupazione che il Signore vuole comuni­carci. Ma come essere bravi operai?

Il Vangelo ce lo suggerisce. Perché Gesù, di fronte a una messe così grande, manda i discepoli due a due? Non era più logico mandarli uno a uno e raddoppiare così i luoghi di annuncio? Bella la spiegazione che Gregorio Magno dà di questo passo evangelico. Il grande vescovo scrive che Gesù .mandò i discepoli due a due perché la prima predica fosse anzitutto l'amore vicendevole, e comunque le loro parole fossero testimoniate con la loro vita. Questo vuoi dire essere lievi­to, sale e luce. «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). La comunione tra i fratelli è la prima gran­de predicazione. Ma dov' è la nostra comunione? Dove la preoccupazione perché noi cre­sciamo come una famiglia? Non siamo, invece, distanti gli uni dagli altri, ognu­no per proprio conto? Ma «due a due» vuol dire aprirsi a tutti. Sì, l'evangelizzazione inizia dall'amore vicen­devole e conduce ad allargare l'amore.

La Gerusalemme verso cui andiamo con il Signore, infatti, non è forse la città ove tutti gli uomini, tutte le nazioni, tutti i popoli si ritroveranno raccolti come in una sola famiglia? Per questo oggi ci scandalizza più che mai la «corsa» al frazionismo, allo smembramen­to, alla contrapposizione, alla lotta fratricida, alle guerre tra gruppi etnici che si ammantano talora anche della dimensione religiosa. La Chiesa, ogni comunità cristiana, sente ancora più vere le indicazioni di Gesù: «Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi» (v. 3). Non è un compito age­vole per un «agnello» far cambiare vita al «lupo»; non è facile sconfiggere l'individualismo e l'interesse per se stessi; non è naturale distruggere gli idoli del­l'arroganza, della competizione, della forza, per affer­mare la signoria di Dio. E tutto è ancora più difficile se questi «agnelli» debbono presentarsi senza «borsa, né bisaccia, né sandali». L'unica loro forza è nella pa­ce donata dal Signore e nell'amore vicendevole che la manifesta. È questa l'unica forza che i discepoli han­no. Qualcuno l'ha chiamata la «forza debole» della fede; è debole perché non ha né armi, né arroganza; eppure è a tal punto forte da spostare i cuori degli uo­mini.

Le frasi finali del brano evangelico ce lo conferma­no: «I settantadue tornarono pieni di gioia dicendo: "Signore anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome"» (v. 17). E Gesù: «lo vedevo satana cadere dal cielo come la folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare» (v. 18-19). C'è dunque un potere dato ai discepoli: quello di voler bene a Dio e agli uomini a ogni costo e sopra ogni cosa. Questa è l'unica grande e fortissima ricchezza del cristiano.