Omelia (29-04-2007)
don Marco Pratesi
Noi ci rivolgiamo ai pagani

La prima lettura ci riporta al primo viaggio missionario di Paolo. Siamo ad Antiochia di Pisidia, e per la prima volta la missione cristiana si rivolge decisamente ai pagani (i precedenti episodi sono fatti isolati).
Il Risorto, costituito Signore (Kyrios) dal Padre, è dotato di ogni potere (Mt 28,18), tra cui la capacità di aprire la mente dei discepoli all'intelligenza della Scrittura (Lc 24,45). In questo caso, un testo di Isaia (49,6) apre la comunità alla chiara consapevolezza di una missione universale: Dio la chiama ad essere luce delle genti.
Israele era primo destinatario di questa luce, alla quale era stato lungamente preparato a partire da Abramo. Aveva gli strumenti per accogliere quella luce definitiva che gli apriva il senso ultimo della Legge.
Israele inoltre, accogliendo in Gesù il proprio Messia, doveva essere anche lo strumento di questa luce ultima, escatologica, in mezzo ai popoli.
Di fatto, Israele ha adempiuto a questa missione: non dimentichiamo che gli apostoli e molti dei primissimi cristiani erano Israeliti. Però solo in una sua parte, in un resto (Rm 11,4-5). Come vediamo in questa lettura, la reazione di alcuni all'annunzio è la contraddizione fino alla persecuzione. Si sentono scavalcati, si mettono in competizione, nasce gelosia e rivalità.
Questo rifiuto non è certo la causa della missione ai pagani; ne cambia però la modalità. La Chiesa, nei suoi apostoli, testimoni qualificati del Risorto, invita i Giudei alla fede in Gesù, per portarla insieme al mondo. Di fronte al rifiuto, non può che continuare la propria missione senza di loro: "noi ci rivolgiamo ai pagani" (v. 46). Va da sé che questo non ha nulla a che vedere con un disconoscimento della ricchezza della tradizione religiosa d'Israele né, peggio, con un atteggiamento di superiorità e disprezzo.
C'è un piano di Dio sulla storia, che nessuno può annullare (Sal 33,11). La corsa della Parola (2Ts 3,1) è inarrestabile. Il rifiuto non blocca Dio e il suo progetto, e anzi per certi versi gli apre nuove porte. Spesso la Parola trova un rifiuto laddove ci aspetteremmo accoglienza, e viceversa viene accolta da chi non sembra averne titolo. È l'esperienza di Gesù, i primi che diventano ultimi e viceversa, che si ripete per la sua Chiesa.
Ogni uomo è posto davanti alla grazia di Dio (v. 43), e decide liberamente quale atteggiamento tenere di fronte ad essa. Chi rifiuta, rende vano per sé il piano della salvezza. Chi accetta, sperimenta da subito la gioia (vv. 48 e 52) e pone la sua vita nella prospettiva dell'eternità (vv. 46 e 48).
Attenzione: si tratta di un'accettazione che non va mai data per scontata, che non può mai diventare motivo di superbia. Per evitare che di fatto si muti in concreto seppur inavvertito rifiuto, essa va continuamente coltivata con cura e verificata con umiltà.
S. Paolo lo dice chiaro e tondo ai cristiani provenienti dal paganesimo, e in essi a tutti noi: "non t'insuperbire, ma temi" (Rm 11,20). I doni di Dio bisogna saperli custodire. Occorre "perseverare nella bontà di Dio" (Rm 11,22), rimanere saldamente attaccati a quella grazia, vivere di e in quella gratuità. Solo così e a tale condizione possiamo essere autenticamente quanto Dio ci chiede: luce del mondo.