Omelia (23-10-2022)
don Michele Cerutti
Commento su Luca 18,9-14

Abbiamo iniziato la Santa Messa con una espressione introduttiva all'atto penitenziale, che ci ha richiamato da subito il brano evangelico di questa domenica che segna le ultime tappe dell'anno liturgico: "Umili e pentiti come il pubblicano al tempio accostiamoci al Dio giusto e santo, perché abbia pietà di noi".

Questo è il primo abito che ci viene chiesto di indossare prima di iniziare la celebrazione eucaristica ed è l'atteggiamento che dovremmo avere ogni qualvolta immersi nella preghiera cerchiamo una relazione con Dio: l'umiltà.

La competizione fa parte della nostra vita e già da bambini entrano in funzione i meccanismi del primeggiare del mettersi in mostra e tutto cresce con il tempo e anche con Dio.

Non è esente chi frequenta assiduamente la Chiesa e i sacramenti, a chi pregando mette in atto le pratiche devozionali e nella vita spirituale più si cresce e più dovrebbe esserci consapevolezza della richiesta del maggiore aiuto di direzione perché si avverte la propria piccolezza e la grandezza del proprio peccato e quindi inevitabilmente la necessità di ricorrere all'aiuto di Dio.

Quante volte si sente nei confessionali io prego tanto e si pensa di essere a posto con la coscienza come se pregare è assolvere il compitino cristiano in maniera ottima.

Lo vediamo questo atteggiamento nel fariseo che vuole pavoneggiare davanti agli uomini e davanti a Dio.

L'errore fa parte della vita e l'umiltà ci dovrebbe indurre a riconoscersi bisognosi di perdono, ma tutto si accetta in quanto frutto della debolezza e lotta per migliorarsi affidandosi a Dio, mentre la superbia porta a considerare ogni peccato commesso come inaccettabile. Siamo erranti che camminano nella consapevolezza che Dio perdona offrendoci la possibilità di redimerci.

Rischiamo di vivere il peccato non più con il santo dolore di averlo commesso e l'altrettanto santa speranza del perdono, ma cadiamo vittima dell'orgoglio e dell'amor proprio, al punto da non poter accettare di aver sbagliato e per superbia ci si vergogna di tornare al Padre a chiedere umilmente perdono.

Uno dei rischi quando si avanza nel percorso di fede, può capitare di sperimentare particolari gioie spirituali o di ricevere segni tangibili della vicinanza di Gesù, per meriti di Dio non per nostre capacità e da qui a montare in superbia il passo è veramente breve perché non si tiene sempre l'attenzione focalizzata su Dio, ma la si sposta e la si pone su se stesso rischiando di perdersi.

Uno dei rischi è dimenticare ciò che Dio ha fatto per noi. Dopo aver ricevuto qualche grazia particolare, è facile provare gioia e gratitudine, occorre ringraziare Dio con tutto il cuore per l'aiuto che ci ha dato. Il tempo rischia di logorare questi buoni sentimenti, di far dimenticare il favore, e soprattutto di alimentare l'orgoglio sino a tenere a mente solo le proprie azioni e non quelle di Dio. Così la grazia che ci ha permesso di ottenere qualcosa, diventa una propria personale conquista. La guarigione ottenuta non è più un dono inestimabile di cui essere sempre grati, ma merito della scienza. La conversione, il più grande miracolo che Dio possa compiere in noi, cessa di essere un miracolo e diviene una propria personale decisione di crescita.

Il pubblicano ci offre nella sua semplicità la via che conduce al cuore vero della vera fede quella gradita a Dio.

Il considerarsi un errante bisognoso di quella vera misericordia che solo Dio può donare.

Egli alla via del mettersi in mostra preferisce quella del nascondimento preziosa agli occhi del Signore.

Un insegnamento per metterci in quella disposizione giusta per accostarsi alla Riconciliazione.