Omelia (05-07-2020)
padre Gian Franco Scarpitta
La motivazione di fondo dell'umilt? e della carit?

In riferimento all'argomento della scorsa Domenica, mi sovviene ricordare un pensiero di un confratello oggi tornato al Padre: "Se ogni volta avanziamo pretesti e scuse per non esercitarla, la carit? non verr? mai messa in pratica. E il problema ? che appunto non di rado noi ci nascondiamo dietro a tali scuse." Lo diceva in riferimento all'accoglienza che i nostri conventi tante volte negano ai viandanti e ai pellegrini, molte volte con il pretesto di dover essere prudenti, di non poter accogliere persone a casa nostra con troppa facilit?, di non essere eccessivamente indulgenti. Se da una parte infatti ? vero che occorre molta attenzione, prudenza e circospezione ogni qual volta ci troviamo a dover ospitare o assistere qualcuno che ricorre a noi, ? altrettanto vero che tali prerogative non devono diventare un alibi: ferma restando la massima cautela, non possiamo esimerci dal venire incontro a chi ha bisogno, sia in ordine all'accoglienza, sia in ordine alla carit? in senso pi? globale e la volta scorsa riflettevamo sul fatto che aprirsi al povero e al bisognoso equivale aprirsi a Dio medesimo. Nel fratello che chiede aiuto, accoglienza, assistenza non possiamo non vedere il Signore che presenzia negli umili e negli abbandonati.
Dicevamo: non possiamo ogni volta avanzare scuse per legittimare l'esercizio della carit?; uno dei motivi per cui non siamo scusati ? il fatto che coloro verso i quali siamo chiamati ad adoperarci sono sempre i "piccoli", i "dimenticati", i "miseri"... quelle categorie di persone reiette dalla societ? generale ma che Dio particolarmente predilige. Mancare nei confronti dei semplici e degli umili non ? mai giustificato. La motivazione di fondo ce la offre la liturgia di oggi, la cui tematica non si allontana molto dagli argomenti della scorsa Domenica. Dio infatti ? provvidente verso i poveri e i piccoli perch? egli stessi si ? umiliato, rinunciando a posizioni di grandezza, spendendo per noi la sua gloria e addirittura configurandosi in tutto a noi se eccettuiamo il peccato.
Il Messia non viene descritto con categorie di grandezza e di superiorit?, ma come lo descrive il profeta Zaccaria nella Prima Lettura di oggi egli sar? un re estremamente sottomesso, che entrer? a Gerusalemme sul dorso di una umilissima cavalcatura ben lontana da quella di cui erano soliti servirsi i monarchi e gli imperatori. Sar? quindi un comune uomo fra gli uomini, partecipe dei dolori e delle ansie della gente, povero fra i poveri e sotto questa fisionomia recher? sollievo e benessere al suo popolo e al mondo intero. La possibilit? della pacificazione universale ? data appunto dalla piccolezza e dalla povert? quali vie predilette dal Messia, dalla sua fuga personale dalle sicurezze e dalle aberrazioni della materia, dal diniego affermato della mondanit? e della secolarit? e dalla presa di distanza da ogni sorta di male e di ingiustizia. Umilt? e povert? sono infatti alla radice di qualsiasi miglioramento anche in ordine alla politica e all'economia e il distacco personale dal potere accresce l'apertura verso gli ultimi e gli esclusi. La fuga dal vizio e dal potere ? alla base dell'estinzione di tutti i focolai di guerra, ecco perch? ad instaurare la pace non pu? che essere un messia povero e dimesso.
Il Messia sacerdote, re e profeta stravolger? quindi il comune pensare che vige fra gli uomini e apporter? una novit? di salvezza sotto ambiti del tutto innovativi, che privilegeranno la semplicit? e l'umilt? di vita. Del resto in tutto l'Antico Testamento ricorre l'idea dei poveri (anawim) privilegiati di Yahv? che a motivo della loro condizione devono dipendere esclusivamente dal Signore per il loro sostentamento.
E cos? Ges?, nell'"inno di giubilo" esalta il Padre che ha preferito "tenere nascoste queste cose ai sapienti e rivelarle ai piccoli" attraverso lo stesso Figlio Ges? Cristo che ? egli stesso l'umile cavalcatore di cui al brano succitato di Zaccaria. Ges? infatti entrer? in Gerusalemme cavalcando un asino e affermer? se stesso non nell'ottica delle aspettative di sapienza umana, ma da quella sapienza "nascosta ai dominatori di questo mondo che i potenti non hanno mai conosciuto, di una sapienza divina (1Cor 2, 2) che ha il suo acme in un evento: Cristo crocifisso e che si rivela quindi nella piccolezza e nella semplicit? delle cose. Dio l'ha resa manifesta appunto non ai dominatori di questo mondo, agli intellettuali raffinati o ai dotti altolocati, ma a coloro che abbiano un cuore sincero e aperto, amante della verit? nella carit?. Ges? mostra il volto di un Dio che rifugge ogni sapienza umana, anzi come dir? poi Paolo, un Dio la cui sapienza non ? di questo mondo, ma che coincide con ci? che il mondo definisce stoltezza. "Quando sono debole, ? allora che sono forte", dir? infatti l'apostolo, delineando che la vera forza di Dio risiede in tutto ci? che noi definiamo debolezza: "Ci? che ? stoltezza di Dio ? pi? sapiente degli uomini, e ci? che ? debolezza di Dio ?: pi? forte degli uomini."(1Cor 10, 25)
In forza di questo Ges? pu? rendere consolazione agli sfiduciati e risollevare i deboli e gli afflitti: si fa loro compagno, amico e confidente avendo egli stesso vissuto la stessa condizione di abbandono e di deperimento e questo lo conduce anche a promettere la sua consolazione e il suo sostegno a coloro che si trovano "affaticati e oppressi" perch? il ristoro, che consiste nella consolazione ma anche nell'equipaggiamento per poter andare avanti, deriver? loro da lui stesso e sar? nella forma convincente.
Si pu? ribadire allora che ? necessario che i sentimenti di Ges? siano anche i nostri e che sulle sue orme ci disponiamo anche noi a prediligere fra tutti i poveri e gli ultimi, senza avanzare pretesti nell'esercizio della carit?.