Omelia (19-06-2016)
padre Gian Franco Scarpitta
Sospirare e vincere

Gesù si rivelerà definitivamente il Messia solo al momento della consegna di se stesso alla morte per la nostra salvezza, perché in questo risiede la sua messianicità propriamente detta: espiare i propri peccati per noi. La gloria ad essa pertinente si rivelerà alla resurrezione e in definitiva nel giorno definitivo del giudizio. A detta di parecchi esegeti forse è per questo che Gesù impone il "segreto messianico" (E ordinò loro di non riferirlo ad alcuno). Il messianismo di Gesù è collegato con il suo essere Re universale e la prerogativa del Regno non è quella dispotica o egemonica, bensì quella "non di questo mondo"(Gv 18, 36): Gesù è Messia non nel senso di nazionalista liberatore politico dal dominio di Roma, quale i Giudei dell'epoca si aspettavano (restauratore del regno d'Israele), ma in quanto istitutore di un nuovo ordine di pace e di giustizia che il Padre viene a portare nelle sue parole e nelle sue opere: il Regno di Dio. Il potere temporale non va confuso con il potere spirituale e il trono e altare non vanno identificati, come purtroppo è avvenuto nei tempi oscuri della Chiesa. Poiché il Regno di Dio è una dimensione spirituale che interpella il cuore dell'uomo, esso comporta che la Chiesa non gestisca alcun potere politico, anche se può offrire orientamenti per una politica di giustizia e di equità che promuova la pace e il conseguimento del bene comune. E ciò sempre in forza del fatto che Regno e messianismo trovano la loro motivazione nella croce, cioè nella massima espressione dell'amore e del servizio.
Ma il perno del messaggio evangelico di questa Domenica è un altro. Gesù ha appena posto un quesito probabilmente di verifica e di valutazione, per appurare se e in che misura il suo messianismo è stato recepito dal popolo e dai suoi seguaci e ad esso Pietro risponde con parole precise e inequivocabili: "tu sei il Cristo di Dio". Cristo vuol dire "Unto", consacrato del Signore che corrisponde all'ebraico Messia e ciò è proprio del Salvatore Gesù di Nazareth. Pietro lo ha capito benissimo non per intuizione causale o per deduzione o per sperimentazione scientifica, ma solo perché il Padre glielo ha rivelato ed è stato reso oggetto da una particolare confidenza. In altro luogo infatti Gesù gli ribatte: "Beato te, Simone figlio di Giona, perché "non la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli"(Mt 16, 17). Per questo Pietro sarà istituito vicario visibile dello stesso Signore sulla terra e capo del collegio apostolico. A lui sarà dato il "potere delle chiavi" e avrà il ruolo supremo di guida visibile della Chiesa di Cristo (Mt 16, 18 e ss.).
L'evangelista Luca ci vuole illustrare tuttavia che la missione di Gesù comporterà inevitabilmente la tappa amara della sconfitta apparente e del vituperio altrui, perché Gesù dovrà necessariamente affrontare umiliazioni, esecrazioni, schernimento e vituperio e soprattutto la tappa inevitabile della tra fissione sulla croce. Questa ci rimanda immediatamente alla previsione del profeta Zaccaria (Prima Lettura) che annuncia "volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto." Come si sa, anche Isaia parla del Servo Sofferente di Yaveh, ma il profeta appena citato prefigura non solamente una prospettiva nefasta di immolazione ma anche una gloria che ad essa consegue: l'innalzamento di questo Messia umiliato e deriso. Gesù in effetti dopo la morte e la resurrezione verrà innalzato per attirare tutti a se (Gv 12, 32) e il suo nome sarà al di sopra di ogni altro nome (Fil 2, 9). E' questo il trinomio portante della missione di Cristo Messia: morte - risurrezione - innalzamento e ciascuna di questi tre elementi non può essere evitato, soprattutto il primo di essi, quello dell'umiliazione e della morte obbrobriosa di croce. La croce è indispensabile perché il Cristo umiliato venga esaltato dal Padre dopo la resurrezione e di conseguenza entri nella gloria per non morire più. La morte di Cristo, preceduta dalla condanna e dal disprezzo degli uomini è l'unica tappa necessaria perché egli possa risollevare le sorti dell'umanità addossandosi sulle sue spalle i peccati di tutti e comprando tutti noi a caro prezzo (1 Cor 6, 20).

Prendendo spunto dai patimenti di Cristo e dalle umiliazioni da questi patite, anche per noi si apre la prospettiva del binomio croce - risurrezione con il quale interpretare ogni evento triste della nostra vita, soprattutto nell'esperienza della lotta e delle ansie per conseguire un determinato obiettivo o un successo o semplicemente quando si voglia raccogliere i frutti della propria pazienza e perseveranza. Ogni percossa subita reca in sé il germe della vittoria e qualsiasi sforzo compiuto recando in cuore la speranza e la certezza in Dio, non manca di apportare prima o poi appropriati vantaggi e benefici. Ricordo che i miei esordi nel cammino verso il sacerdozio furono tutt'altro che facili e il percorso tutt' altro che spianato. Passando dall'idea primaria del giornalismo (o delle lettere) alla prospettiva del sacerdozio mi trovai, da adolescente liceale, a lottare solo contro tutti di fronte alle illazioni e ai pregiudizi di parenti e amici che non credevano nella mia scelta e trovavano chi un pretesto chi un altro per avversarmi o per mostrarmi il proprio disappunto. Ricordo ancora come se fosse avvenuto di recente quella volta in cui, durante una notte di Natale, uno zio mi intrattenne a tavola fino alle prime luci dell'alba tentando in tutti i modi di distogliermi dal proposito di scegliere il seminario e mi trovai a dover affrontare da solo sia lui che numerosi altri parenti commensali anch'essi intenti a marciarmi contro. Tante furono le contestazioni e le disapprovazioni in famiglia, le critiche, le insinuazioni e le illazioni di parenti e conoscenti che rendevano difficile la mia serenità durante gli ultimi due anni di frequenza del liceo classico. Vi fu anche chi orchestrò un incontro con un signore di religione evangelica che, Bibbia alla mano, tentava di indurmi ad abbandonare l'idea del sacerdozio. Anche alcuni sacerdoti mostravano inizialmente pregiudizi nei miei confronti, così pure non pochi compagni di seminario e ancora ricordo che (chissà per quale motivo) durante il primo anno di seminario Diocesano il Rettore incaricò per qualche mese i miei compagni seminaristi di controllarmi a vista. Gli anni successivi della formazione furono più sereni e fortunati e mi videro anche oggetto di stima e di benemerenza, ma durante gli studi teologici dovetti affrontare l'invidia e la gelosia di non pochi confratelli che canzonavano e sbeffeggiavano la serietà con cui conducevo gli studi e la vita religiosa. Non mancarono neppure Superiori che questionavano anche quando si spostava una sedia o un bicchiere). Emisi la professione dei voti solenni quasi a porte chiuse, in una chiesa poco frequentata di un rione semi malfamato e una volta ottenuta l'ammissione al diaconato dovetti letteralmente elemosinare una chiesa nella quale celebrare la mia ordinazione. Agli inizi del ministero sacerdotale poi dovetti lottare tanto per ottenere dai Superiori (qualcuno di essi abbastanza prevenuto nei miei confronti) un incarico che non fosse solo quello del "tappabuchi". Quante tentazioni di abbandonare l'Ordine sia da studente che da giovane sacerdote, ora le per le reticenze e dei confratelli, ora per l'incomprensione dei Superiori... Anche i miei esordi da Superiore e responsabile pastorale non furono fra i più facili e sarebbe troppo lungo adesso raccontare episodi illuminanti di gavetta e di immolazione, per fortuna poi superati. Basti solo pensare che al momento della mia presa di possesso della casa di cui mi resero responsabile, il giorno stesso del mio arrivo mi ritrovai solo, senza alcun supporto o alcun rodaggio o tirocinio, privo di esperienza e con tantissimi problemi da risolvere sia interni che esterni, mentre intanto la gente, perplessa mi osservava marcandomi stretto. Per non parlare poi dei paragoni immancabili con il Superiore precedente!

Man mano che mi trovavo ad affrontare e a superare ciascuno degli ostacoli suddetti, concludevo tuttavia come Dio volesse che mi mantenessi nell'umiltà e che non montassi in superbia e presunzione e soprattutto che non mi trastullassi nella sicumera e nella caparbietà. Deliberavo che forse era sempre stato quello il vero motivo per cui Dio permetteva croci e vessazioni: la maturità umana e spirituale che si reiaalizza molto più nella lotta che nelle fortune e nei successi immediati e del resto di tappa in tappa ogni vittoria la si gusta meglio quando la pesantezza del negativo viene lasciata alle nostre spalle un po alla volta. Ogni impedimento è giovamento e ogni sconfitta reca in se il seme della vittoria futura e del resto come poter crescere umanamente se non affrontando sfide e sacrifici e chi si diverte a tormentarci cadrà egli stesso nella trappola che ci avrà teso. Chi vuole invece seriamente radicarsi in Cristo e crede senza riserve in ciò che è chiamato a vivere, coltivando la propria vocazione o i propri propositi con estrema fiducia e perseveranza, otterrà la stessa consolazione che solo Cristo può dare e conseguirà lo stesso spessore di gloria che a lui è stato riservato. Dice Paolo: ""Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la fame,, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori, in virtù di Colui che ci ha amati." (Rm 8, 35 - 37).