Omelia (29-12-2013)
don Luciano Cantini
Nel labirinto tra compimento e profezia

Fuggi in Egitto
Storia di ordinaria amministrazione del genere umano: davanti ad un pericolo si fugge, si cerca un posto più sicuro. Per Israele l'Egitto è stato un rifugio scappando dalla carestia ed è diventato col tempo luogo inospitale e di schiavitù da cui fuggire nella ricerca di una terra promessa. Ogni luogo non è mai definitivo. C'è sempre una terra promessa per chi fugge, una speranza, forse una illusione.
Perché tutto questo movimento? Non si potrebbe aiutarli a rimanere a casa loro? Cosa ci vuole? Bastano due spiccioli, qualche aiuto internazionale tanto per smaltire le eccedenze o scaricare quello che è incommerciabile in occidente e inutile laggiù?
Il Padreterno entra ancora una volta nel sogno di Giuseppe e lo spedisce in Egitto. Non poteva forse risolvere il problema alla radice scorciando la vita a Erode? O infilandosi nel suo cervello per ammansirlo, o dare forza ai suoi consiglieri per farlo desistere? Potrebbe il Dio creatore della storia intervenire con la sua onnipotenza per cambiare cuore e atteggiamenti dell'uomo?
Dio non interviene con forza, non violenta il genere umano. La storia va avanti tra peccati e bontà, tra tragedie e solidarietà, tra presente e futuro!

Perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta
L'evangelista vede nella fuga il compimento della Scrittura e cita Osea (11,1), perché la storia non solo va vissuta con le sue evenienze e contraddizioni, ma va anche saputa "leggere" interpretare come una Parola che Dio ancora ci rivolge in questo nostro tempo. La storia è un segno da riconoscere (Mt 16,3) perché è sempre compimento di una promessa e profezia per il futuro. Dio ci rivela la sua onnipotenza nella sua piccolezza-debolezza-fragilità; sembra una contraddizione ma non è così: la potenza di Dio è nella Croce e la Fuga ne è annuncio. La grandezza di questo racconto sta proprio nel riconoscere un Dio piccolo, povero e fragile che consola la povertà e la fragilità dell'esistenza umana.
Da questa considerazione sorge una molteplicità di domande sul tempo che stiamo vivendo, sulle fughe di cui siamo testimoni, sulle libertà agognate e le prigionie nuove che si fanno incontro; gli sconquassi economici, la politica che annaspa, i ricchi sempre più tali e la povertà che cresce... possibile che tutte le vicissitudini di oggi proprio non ci dicano niente, non siano profezie a tal punto che nulla debba cambiare nello stile di vita e nella quotidianità delle scelte?

Egli si alzò, prese il bambino e sua madre
Giuseppe da uomo giusto, sensibile alla Parola di Dio e ai suoi segni, semplici e fragili come un sogno, si assume la sua responsabilità. Perché la storia di Dio è anche la storia di uomini e l'una passa attraverso la responsabilità dell'altra. Giuseppe prende il bambino e la madre se ne assume la responsabilità nell'andare e nell'entrare.
Il Vangelo non parla di "ritorno" perché la storia non ritorna su i suoi passi, così l'uomo è chiamato sempre verso un futuro, una promessa che non è mai chiusa in se stessa ma si apre a nuovi futuri e nuove promesse (Gen 12,1), è sempre compimento e profezia. E il suo è un andare fragile, incerto: Giuseppe "ebbe paura". È proprio l'incertezza e il timore di non essere all'altezza del compito che ci rende strumenti nelle mani di Dio ci tiene aperti a nuove promesse e nuovi compimenti.

«Sarà chiamato Nazareno».
Non c'è traccia di questa espressione, l'evangelista dà la paternità della frase ai profeti (al plurale) in modo indefinito perché tutta la Bibbia ha profetato di quel bambino e "Nazoreo" è una parola dalle interpretazioni diverse: dall'ebraico "nétzer" (virgulto) perché "Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici" (Is 11,1), ma anche da "nazir" che significa consacrato, oppure dal verbo "nasar", che vuol dire "proteggere"; Matteo lo lega alla cittadina di Nazareth in Galilea, periferia della nazione, luogo di incontri di mescolanze, indefinito. Ecco quel bambino entra nel nascondimento, di una città degli uomini, periferica rispetto ai poteri, segnato dalla quotidianità della storia degli uomini, dalla famiglia, dal lavoro, la vita di comunità, perché in questo labirinto di circostanze cresca la salvezza per tutti gli uomini.