Omelia (06-05-2012)
mons. Gianfranco Poma
Chi rimane in me porta molto frutto

Uno stesso tema riunisce i due testi di Giovanni (1 Giov.3,18-24; Giov.15,1-8) che la liturgia della domenica quinta di Pasqua ci presenta: occorre "rimanere" in Cristo per portare i frutti dell' Amore. Se con tanta forza è sottolineata l'urgenza per i discepoli di Gesù di portare frutti, che sono i frutti dell'Amore ("agape"), con altrettanta fermezza è dichiarato che questo è possibile solo "rimanendo" in Lui.
"Io sono il Pastore buono...", "Io sono la vite vera": continua così la Liturgia pasquale a farci rivivere il nostro incontro con Cristo risorto, vivo della vita di Dio, l' "Io sono", che può dare alla nostra vita il senso a cui aspiriamo dal profondo del nostro cuore.
L'allegoria della vite è familiare ai profeti di Israele: Osea, Isaia, Ezechiele, paragonano il popolo d'Israele alla vite piantata da Dio. Il testo più espressivo è il canto della vigna di Isaia 5,1-7: "Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d'amore per la sua vigna...Che cosa dovevo fare ancora per la mia vigna che io non abbia fatto?..." Ma il canto d'amore diventa di amara delusione: "Aspettò che producesse uva e invece produsse acini acerbi..."
Gesù riprende l'allegoria ma in modo radicalmente nuovo: all'opposto della vigna che non ha prodotto frutto, Gesù si presenta come Colui nel quale si realizza il progetto di Dio. Il Padre è il vignaiolo che ha piantato la vite e ad essa ha comunicato tutto il suo amore; Lui, Gesù, è la vite "vera": vera perché Lui porta il frutto atteso dal vignaiolo, Lui realizza il sogno per il quale aveva piantato la vigna. Gesù è il ceppo autentico, la vite autentica, e tutti i discepoli sono i tralci: la comunione di Gesù con i discepoli, una comunione intensa, ricca di vita, è la realizzazione del progetto del Padre. Ma questa realizzazione avviene perché il Padre stesso ha comunicato tutto se stesso al Figlio e il Figlio lo ha accolto, ha risposto con il dono totale di sé al Padre: senza questa relazione tra il Padre e il Figlio non ci sarebbe la fonte della linfa vitale di cui vive la Vite vera, che dal ceppo passa ai tralci perché essi portino frutti abbondanti. Tutto è Amore, tutto è comunione, tutto è vita: tutto è dono, donato, accolto, condiviso, e il cuore di tutto questo è Lui, Gesù con il suo abbandono totale nel Padre che fa di Lui la fonte dalla quale sgorga la vita per il mondo intero.
Certo, quando Gesù parla dei "frutti", fa riferimento al racconto della creazione: quando Dio crea l'erba e gli alberi dona loro la possibilità di produrre frutti e semi; gli animali e gli uomini sono chiamati a moltiplicarsi (Gen.1,11-12). Tutto ciò che è creato ha la possibilità a sua volta di portare la vita: la creazione è "buona", e questa vita che produce frutti è una benedizione di Dio. Ai suoi discepoli Gesù rivela che la vita vera che produce frutti maturi passa attraverso la sua unione con il Padre e dei discepoli con Lui.
Tutto è grazia, benedizione, meraviglia, splendore di vita: l'unica condizione è "rimanere in Lui". "Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me, non potete fare nulla..." La parola di Gesù, stupenda, rivelazione della gratuità del dono della vita offerta a chi "rimane" in Lui, come sempre nel Vangelo di Giovanni, è pure preoccupata, esigente, pedagogica. "Senza di me non potete fare nulla": il rischio fondamentale, legato alla dimensione umana come tale, è l'autosufficienza, il voler fare da sé, l'aver paura di Dio, di Cristo, quasi che il rapporto con Dio condizionasse la realizzazione dell'uomo. Cristo è l'offerta d'amore del Padre, perché chi "rimane in Lui" sperimenti la libertà e la pienezza della vita. Gesù certamente denuncia ogni attivismo puramente umano e l' illusione che l'autosufficienza possa condurre alla realizzazione della vita umana.
Quando Giovanni scrive, è cosciente dei rischi che la sua comunità sta correndo e vede all'opera il vignaiolo, il Padre, che "taglia" e "purifica", non per distruggere la vite, ma per permetterle l'abbondanza della vita.
Probabilmente Giovanni allude anzitutto, al rischio che la comunità dia per scontato il suo "rimanere in Lui" e diventi autoreferenziale, preoccupata più di quello che ritiene la propria testimonianza nel mondo che non di lasciare che Lui operi in lei. Sono in vista le persecuzioni: il pericolo è allora quello di scoraggiarsi, di dubitare dell'amore di Dio. Si tratta invece di "rimanere in Lui", nella logica della Croce: la comunità ne esce allora purificata e realizza la vite vera.
L' altro pericolo è il settarismo all'interno della comunità: l'evangelista ha senza dubbio in mente i membri della comunità che si sono separati (1 Giov.2,19), che hanno privilegiato prospettive, idee, modi di intendere propri, piuttosto che "rimanere in Lui", nell'unità della comunione fraterna. Non è il vigore di un tralcio che si separa dalla vite che dà la vita, ma è la vite che dà la vita atttraverso i tralci pur fragili: "senza di me non potete fare nulla".
"Rimanere in Lui", nell'unità per la quale Gesù ha pregato è dunque il valore fondamentale (Giov.17). Non per nulla il verbo "rimanere", caro al Vangelo di Giovanni, ritorna incessantemente in questo brano: dodici volte in pochi versetti. "Rimanere" non è soltanto essere "accanto" o "con" ma essere "nell'altro" e non significa un semplice "restare" statico oppure sentire l'obbligo di non abbandonare un luogo: esprime l'unione intima, l'inabitazione di Gesù nei suoi discepoli e dei discepoli in Lui, in una dimensione dinamica di relazione, di ascolto, di trasformazione interiore che genera poi la trasformazione di tutta la vita.
"Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto": il frutto atteso dal vignaiolo, che la vite vera produce, che realizza pienamente il suo sogno, dunque, è l'amore, la comunione, che fa dell'umanità un popolo unito, una comunità di fratelli.
"Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi": il rischio è di sottolineare soltanto la prima parte della frase riducendo l'invito di Gesù ad un impegno soltanto umano, psicologico. L'originalità del pensiero di Giovanni si esprime nella parola "come": non si tratta soltanto di imitare il Maestro che ha lavato i piedi dei discepoli, ma di agire come risposta all'amore che Lui ci dona per primo, con l'energia che Lui stesso dona ai tralci della vite.
Nel brano che la Liturgia ci fa leggere come seconda lettura (1Giov.3,18-24), Giovanni ci ricorda che l'amore non si limita a buoni sentimenti o a buone parole: "Figlioli, non amiamo a parole o con la lingua, ma con i fatti e nella verità". Immediatamente prima ha ricordato che la verifica della autenticità della mistica è il servizio dei fratelli.
Ascoltando la sua Parola e rivivendo nell'Eucaristia l'esperienza del "nostro" rimanere in Lui come Lui è in noi, sapendo che il nostro amore rimane sempre inadeguato al suo, gustiamo pure l'altra stupenda parola della seconda lettura, che ci illumina sulla dinamica fondamentale della nostra vita nella comunità credente: "Qualunque cosa il nostro cuore ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa".