Omelia (18-03-2012)
don Alberto Brignoli
La folle storia d'amore di Dio

Nel nostro comune modo di pensare e di vivere la fede, siamo abituati a considerare l'amore nei confronti di Dio come un'iniziativa "nostra": l'uomo di ogni epoca, nella sua vita piena di incertezze, di difficoltà e anche di situazioni drammatiche, sente il bisogno di un riferimento a qualcosa di più grande di lui che lo possa salvare da questa situazione. E quando questo "qualcosa" diventa un "Qualcuno", ovvero quando l'uomo giunge a dare il nome "Dio" a questa realtà soprannaturale di cui ha bisogno, ecco che, quasi di conseguenza, non solo ne avverte il bisogno, ma vuole entrare in contatto con lui, lo desidera (come dice la parola stessa, "de-sidera", "dal cielo"), lo vuole; lo ama, appunto.
Ma la storia della Salvezza così come la leggiamo nell'Antico Testamento, e soprattutto la vicenda di Gesù Cristo, ci dimostrano l'esatto contrario: l'amore dell'uomo per Dio non è iniziativa puramente umana, ma è la conseguenza, la risposta a un previo amore di Dio per l'uomo. La Sacra Scrittura, in più occasioni, ci mostra un Dio talmente dedito all'uomo da apparire lui stesso come colui che "desidera" l'uomo, che "ha bisogno" di lui, che vuole "entrare in contatto" con lui, che lo vuole, lo cerca, lo ama. E lo ama a tal punto da essere disposto a fare di tutto per lui, a fare qualsiasi cosa purché l'uomo ricambi questa follia d'amore che prova per lui. Sembra di trovarci di fronte all'eterna vicenda di un innamorato non corrisposto, che fa di tutto (a volte addirittura pazzie) purché l'altro o l'altra lo noti.
Le letture di oggi ci mettono di fronte proprio alle follie dell'amore di Dio nei confronti dell'uomo, realizzatesi, secondo quanto la nostra fede giudeo - cristiana ci insegna, lungo i secoli della storia della Salvezza. In maniera un po' parafrasata, il libro delle Cronache rilegge la storia del popolo d'Israele come una vicenda di continue premure di Dio nei confronti di un popolo che puntualmente rifiuta le attenzioni di Dio su di lui: dalla bellezza della Creazione mandata a rotoli dalla disobbedienza dell'Eden, alla Nuova Creazione del "dopo - Diluvio" rifiutata dalla costruzione della torre di Babele con cui l'uomo sfida il primato di Dio; dalla prodigiosa vicenda di liberazione attuata con Mosè e smentita dall'adorazione del vitello d'oro nel deserto, al continuo invio da parte di Dio di uomini di governo, di fede e di profezia profondamente appassionati alle vicende storiche del popolo d'Israele, ma puntualmente rifiutati, disprezzati e spesso pure martirizzati in nome di una volontà di autosufficienza dell'uomo nei confronti di Dio.
Poi, però, ci sono momenti in cui questo "amor ch'a nullo amato amar perdona", questa folle tempesta di Dio nei confronti dell'uomo si placa un po'; e allora permette che al popolo d'Israele capitino sventure (come quella della distruzione del tempio di Gerusalemme e dell'esilio in Babilonia) che facciano capire all'uomo quale opportunità ha gettato al vento rifiutando l'amore di Dio.
Sì, perché l'amore di Dio non tradisce mai; mentre l'uomo che pone la sua fiducia nell'uomo non può andare molto lontano.
E comunque, l'imprevedibilità dei disegni d'amore di Dio sull'uomo non si ferma qui. Anche in situazioni di totale sfacelo, come quella del popolo d'Israele che perde la libertà politica, religiosa e territoriale, la Provvidenza di Dio suscita vicende storiche che permettono al popolo di ricostruirsi e di ricominciare da capo. Nel momento in cui la distanza del popolo d'Israele dall'amore di Dio diventa talmente grande che il suo Figlio Unigenito, invece di essere ascoltato e amato, viene inchiodato alla croce come un malfattore, anche da quella vicenda Dio è capace di trarne un beneficio per l'uomo, dandogli l'opportunità, attraverso un gesto di conversione e di fede, di comprendere che ciò che ha fatto con Gesù Cristo è causa non di morte, ma - paradossalmente - di vita eterna.
Le analogie tra la vicenda di Ciro, re di Persia che libera dall'esilio gli Israeliti, e Gesù Cristo che libera l'uomo dall'esilio del peccato e della morte, sono abbastanza evidenti. Da due uomini che storicamente non godevano di nessun credito di fronte ai benpensanti della fede - uno per la sua origine pagana, l'altro per essere un falegname che porta al mondo l'annuncio "scandaloso" di un Dio che non è giudice ma è Padre - Dio fa sorgere due strumenti di salvezza per il suo popolo. E se il primo, Ciro, rappresenta solo una salvezza "storica", riguardo al secondo, Cristo, non c'è necessità di ulteriori spiegazioni al riguardo.
Rimane, comunque, una questione di fede. È vero che è Dio ad amare per primo l'uomo, e ad amarlo al punto di fare addirittura la follia di consegnargli il suo Unico Figlio perché venga messo in croce; ma il secondo atto di questa "storia d'amore" lo deve recitare l'uomo. Dipende dalla sua fede accettare che quell'uomo della croce sia un malfattore o sia il Figlio di Dio, che sia uno scandalo o che rappresenti uno scopo di vita. Non dipende da Dio, che alla fine lascia l'uomo libero di amarlo o no.
E non dipende nemmeno dalle suppliche, spesso interessate, che rivolgiamo a Dio purché ci liberi dai mali che stiamo vivendo, come fece il popolo d'Israele guardando al serpente di bronzo innalzato nel deserto da Mosè; e neppure dalle buone opere che uno compie, come ci ricorda Paolo nella seconda lettura. Non sono le nostre buone opere che ci aprono le porte al Paradiso, ma la fede in Gesù Cristo Figlio di Dio, da cui, come naturale conseguenza, devono scaturire buone opere di amore e di misericordia, capaci di mostrare ad ogni uomo che Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per condannare nessuno, ma perché tutti abbiano in lui la vita, e la vita in abbondanza.
Vita in abbondanza non solo nell'eternità, ma già da qui, da ora. Ogni volta che difendiamo la vita e che facciamo tutto il possibile perché ogni uomo abbia una vita degna di essere chiamata "vita", operiamo "in piena luce" quella "verità" che manifesta dentro di noi la presenza dell'amore eterno e decisamente folle di Dio per l'uomo.