Omelia (04-09-2011)
don Alberto Brignoli
Amare fa sempre del bene

Credo che per comprendere meglio il senso del brano di Vangelo di quest'oggi (e in generale del tema delle letture) sia utile "ribaltarne" la lettura. Se lo leggiamo così come ci viene proposto nella redazione finale dell'evangelista, ci appare immediatamente come un "andare di male in peggio". C'è una situazione iniziale di difficoltà (un comportamento sbagliato da parte di un membro della comunità) che si cerca di risolvere prima con il dialogo personale, poi attraverso un confronto con altre persone, poi - ipotizzando che le cose non si riescano a risolvere - parlandone in forma comunitaria e alla fine, di fronte ad un'eventuale reiterata situazione d'incomprensione e di fallita riconciliazione, si giunge all'esclusione del membro dalla comunità (una sorta di scomunica). Letto così, il brano non riempie certo di speranza e di serenità, pensando a situazioni di conflitto che hanno necessità di essere risanate...
Ma proviamo a rileggere il brano partendo dal fondo, ovvero dalla fiduciosa presa di coscienza che dove un gruppo di credenti in Cristo (una comunità) si riunisce nella ricerca del bene comune, nella preghiera, nel faticoso ma esaltante lavoro di intessere relazioni vere tra gli uomini, il Signore è in mezzo a loro, e che quindi ogni sforzo non può che andare a buon fine. La prospettiva cambia radicalmente.
È un conto dire: " Cerchiamo di eliminare le cose che vanno male in una comunità, facendo lo sforzo di far ravvedere le persone che si comportano male, forti del fatto che il Signore è con noi", ed è un altro conto dire: "Il Signore è in mezzo a noi, perché ci sforziamo, pregando insieme, di creare relazioni, di aiutare chi cammina con fatica a riavvicinarsi alla comunità, coscienti anche del fatto che qualcuno non accetterà di essere accompagnato in questo sforzo".
Nel primo caso, c'è quasi un intento giustizialista, di chi fa di tutto (mosso da buona fede, s'intende) per rimuovere il male che c'è dentro e intorno ad una comunità; nel secondo caso - e permettetemi di avere la presunzione di pensare che sia l'atteggiamento di Gesù - c'è una sola legge, quella dell'amore (nella quale "si ricapitola ogni comandamento", per dirla con Paolo), che viene dall'essere discepoli del Signore, che si avvicina a ogni uomo con il solo intento di farlo sentire, nonostante tutto, figlio di Dio.
Non saprei dire (perché non sono uno storico) se lungo i secoli questo brano di Vangelo sia stato utilizzato per giustificare teologicamente la costituzione di tribunali ecclesiastici volti a far ravvedere i fratelli che si trovano in situazioni irregolari, pena l'allontanamento dalla Chiesa, ossia la scomunica. Quello che mi sentirei di dire è che - se fosse davvero così - non si è colto lo spirito di profonda misericordia e di amore che c'è dietro queste parole di Gesù.
Egli non è venuto a condannare, ma a perdonare e salvare. Se quindi nemmeno lui (pur avendone il diritto) si è permesso di giudicare e di condannare i peccatori, ma solo di aiutarli a ritrovare se stessi e il loro rapporto con Dio, come possiamo noi, uomini e discepoli suoi, arrogarci questo diritto? In nome di chi e di che cosa ci permettiamo di dire a una persona "Tu sei fuori dalla comunità", senza aver prima fatto con lei un percorso di ascolto e di accompagnamento teso ad ascoltare e capire i drammi che spesso si nascondono dietro a un comportamento sbagliato? In nome di chi e di che cosa abbiamo la presunzione di creare categorie di persone distinguendo tra "i nostri" e "gli altri", sulla base di atteggiamenti apparentemente buoni e cattivi? In nome di chi e di che cosa "scomunichiamo" una persona "ipso facto", senza averle dato la possibilità non tanto di ravvedersi (può anche decidere di non farlo, lo dice il vangelo stesso di oggi!), quanto anche solo di dare delle spiegazioni ai propri comportamenti?
Parlo da uomo "di Chiesa", ossia appartenente al ministero istituito attraverso il sacerdozio ordinato: quante sentenze emettiamo sui comportamenti delle persone senza neppure aver parlato con loro! E non parlo di cose in grande stile, di "scomuniche" ufficiali della Chiesa: dietro a quelle, ci auguriamo tutti che ci sia sempre un iter e un criterio di giudizio più evangelico che canonico o giuridico. Mi riferisco invece alle tante piccole scomuniche della vita comunitaria di ogni giorno. Quante volte eliminiamo da una comunità, da un gruppo parrocchiale, da un movimento, da un cammino le persone che ci danno fastidio, che la pensano diversamente da noi, che si comportano male, e magari lo fanno come reazione a nostri precedenti comportamenti incorretti!
E quanto poco, invece, ci preoccupiamo di ritrovarci insieme a pregare su un problema o su un atteggiamento scorretto; quante poche opportunità creiamo per trovarci a riflettere e meditare tra persone di diversi credi religiosi, di diversa impostazione ecclesiale, o anche solo di modi diversi di pensare all'interno della stessa parrocchia; quanto poco pensiamo alle nostre azioni qui sulla terra come anticipo di ciò che avverrà nella Chiesa celeste a cui tutti siamo chiamati, e la cui unica legge è quella dell'amore (ecco il senso di "tutto quello che legherete e ciò che scioglierete sulla terra ...sarà legato e sciolto in cielo").
E soprattutto, quanto poco dialogo tra di noi, particolarmente quando ce n'è più bisogno, ovvero quando non ci si intende, non ci si comprende, e quindi si entra in conflitto, si litiga, ci si arrabbia, e poi si commettono errori e ingiustizie! Non è quando si va d'accordo che c'è bisogno di dialogo (già si va d'accordo, va da sé...), ma quando si fa difficoltà a stare bene gli uni con gli altri.
E cercare di ricreare relazioni giuste tra noi uomini e tra noi e il nostro Dio, non è un'opzione tra le tante: è un imperativo categorico! Se non lo facciamo, Dio ce ne chiederà conto, come ci dice Ezechiele nella prima lettura: "...il malvagio morirà per la sua iniquità; ma della sua morte io domanderò conto a te".
Io non ci sto, a scomunicare e condannare: anche solo per non sentirmi dire da Dio, un giorno, che sono responsabile della rovina della fede e della vita di un fratello. Ma soprattutto, vorrei che Gesù mi insegnasse, giorno dopo giorno, ciò che Paolo ci ha meravigliosamente detto oggi: "La carità non fa alcun male al prossimo".