Omelia (24-10-2010)
padre Ermes Ronchi
Infelice chi guarda solo a se stesso

Gesù, rivolgendosi a chi si sente a posto e disprezza gli altri, de­nuncia anche a noi i rischi della preghiera: non si può pregare e disprezzare, ado­rare Dio e umiliare i suoi fi­gli. Ci si allontana dagli altri e da Dio; si torna a casa, co­me il fariseo, con un pecca­to in più. Il fariseo inizia con le parole giuste: O Dio, ti ringrazio. Ma tutto ciò che segue è sba­gliato: ti ringrazio di non es­sere come tutti gli altri, ladri, ingiusti, adulteri. Non si con­fronta con Dio, ma con gli al­tri, e gli altri sono tutti diso­nesti e immorali. In fondo è un infelice, sta male al mon­do: l'immoralità dilaga, la di­sonestà trionfa... L'unico che si salva è lui stesso. Onesto e infelice: chi guarda solo a se stesso non si illumina mai.
Io digiuno, io pago le decime, io... Il fariseo è affascinato da due lettere magiche, strega­te, che non cessa di ripetere: io, io, io. È un Narciso allo specchio, Dio è come se non esistesse, non serve a nien­te, è solo una muta superfi­cie su cui far rimbalzare la propria auto sufficienza. Il fariseo non ha più nulla da ricevere, nulla da imparare: conosce il bene e il male, e il male sono gli altri. Che è un modo terribilmente sbaglia­to di pregare, che può ren­derci «atei». Invece, nel Padre Nostro, modello di ogni preghiera, mai si dice «io» o «mio», ma sempre «tuo» o «nostro». Il tuo regno, il nostro pane.
Il fariseo ha dimenticato la parola più importante del mondo: tu. Vita e preghiera percorrono la stessa strada: la ricerca mai arresa di un tu, uomo o Dio, in cui ricono­scersi, amati e amabili, ca­paci di incontro vero, quello che fa fiorire il nostro esse­re.
Il pubblicano non osava neppure alzare gli occhi, si batteva il petto e diceva: Ab­bi pietà di me peccatore. Due parole cambiano tutto nella sua preghiera e la fanno ve­ra.
La prima parola è tu: Tu ab­bi pietà. Mentre il fariseo co­struisce la sua religione attorno a quello che lui fa', il pubblicano la edifica attor­no a quello che Dio fa.
La seconda parola è: pecca­tore, io peccatore. In essa è riassunto un intero discorso: «sono un ladro, è vero, ma così non sto bene; non sono onesto, lo so, ma così non sono contento; vorrei tanto essere diverso, non ci riesco; e allora tu perdona e aiuta».
Il pubblicano tornò a casa sua giustificato, non perché più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l'umiltà), ma perché si apre - come una porta che si soc­chiude al sole, come una ve­la che si inarca al vento - a un Dio più grande del suo pec­cato, vento che fa ripartire. Si apre alla misericordia, a questa straordinaria debo­lezza di Dio che è la sua uni­ca onnipotenza.