Omelia (12-09-2010)
padre Ermes Ronchi
Quel padre che difende la libertà

Si è persa una pecora, si perde una moneta, si perde un figlio. Si di­rebbero quasi delle sconfit­te di Dio. E invece l'amore vince proprio perdendosi dietro a chi si era perduto. Il Dio di queste parabole è un Dio che và dietro anche a uno solo. Uno, uno solo di noi, e per di più sbanda­to, è sufficiente a mettere Dio in cammino.
Un uomo aveva due figli.
Questo inizio, semplicissi­mo e favoloso, apre la pa­rabola più bella. Nessuna pagina al mondo raggiunge come questa il centro del nostro vivere, nessuna lascia trasparire come questa il cuore di Dio. Un Dio dif­ferente, diverso non solo da quello dei Farisei, ma an­che dall'immagine che noi ancora ci portiamo in cuore: un Padre che non vuole una casa abitata da figli­servi, obbedienti e scontenti, ma da figli-liberi, gioiosi e amanti. Il suo dramma sono due figli en­trambi insoddisfatti, forse perché si credono servi.
Il più giovane se ne va, un giorno, in cerca di felicità. Questa crisi del ribelle l'abbiamo tutti vissuta, e spes­so il gesto di rivolta non e­ra che il preludio a una dichiarazione d'amore. Il Pa­dre non si oppone, non è mai contro la libertà.
Ma la storia ha una svolta drammatica: il figlio si tro­va a pascolare i porci. Il li­bero ribelle è diventato ser­vo, affamato, «può rubare le ghiande ai porci, ma non può accontentarsi, come loro, delle sole ghiande. Crudeltà questa? No, Prov­videnza» (Mazzolari). L'uo­mo nasce con il cuore ma­lato di cose grandi e le pic­cole non saziano.
Allora si ricorda del pane di casa, e si mette in cammi­no. Al padre non importa il motivo per cui il figlio ri­torna, se per fame o per a­more, se per paura o per pentimento, a lui basta che si metta in viaggio, e lo «ve­de quando è ancora lontano».
Padre, non sono degno, trat­tami da servo. E lui lo in­terrompe, per convertirlo proprio dal suo cuore di servo, per restituirgli un cuore di figlio, un cuore in festa. Per questo non ema­na verdetti, né di condanna né di assoluzione, perché il primo sguardo di Dio non si posa mai sul peccato del­l'uomo, ma sempre sulla sofferenza, per guarirla.
Il fratello maggiore torna dai campi ed entra in crisi: «io ti ho sempre ubbidito, e tu non mi hai dato neanche un capretto». Ha misurato tutto sulla contabilità del dare e dell'avere, come un salariato. Il padre vuole sal­vare anche lui dal suo cuo­re di servo: «tu sei sempre con me, tutto ciò che è mio è tuo». Tutto! Avrà capito?
Padre, non sono degno, ma mi prendo lo stesso il tuo abbraccio, la veste nuova, la festa. Sono l'eterno pro­digo. Sono la tua agonia e la tua gioia. Sono il tuo fi­glio. Grazie di essere Padre a questo modo, un modo davvero divino.