Omelia (30-11-2008)
don Marco Pratesi
Padre e Redentore

La lettura è parte della sezione 63,7-64,11, una supplica comunitaria di carattere penitenziale che risale forse al primo postesilio. Vi troviamo una ricca "teologia del peccato": vagabondaggio lontano dalle vie di Dio, indurimento del cuore, che non ha più Dio come punto di riferimento, ribellione a lui, inquinamento degli stessi atti di culto; torpore per il quale non si cerca più la salvezza da Dio e non lo si invoca più, provoca una rottura della relazione personale con Dio (il suo volto è nascosto, egli è adirato) e condanna la vita all'inconsistenza (le foglie avvizzite portate via dal vento: 64,4, cf. Sal 1,4).
Questa è la situazione del popolo. Ma mentre il semplice senso di colpa si ferma alla percezione del proprio male, la fede no, spinge oltre, verso Dio, che per due volte nella pericope liturgica (e tre nel testo integrale), all'inizio e alla fine, viene chiamato, in modo non molto abituale per l'Antico Testamento, "nostro padre" (vv. 63,16; 64,7). Padre nel senso di creatore ("siamo argilla plasmata da te"), ma soprattutto nel senso di redentore, ossia liberatore e salvatore. Dio per Israele lo è "da sempre" (63,16), da quando ha cominciato a esistere come popolo con l'Esodo dall'Egitto. Il "redentore" nel diritto d'Israele è il congiunto più prossimo che interviene per riscattare un bene perduto, dalla terra alla libertà personale. Israele è nato nell'esperienza sorprendente della liberazione di Dio. Queste sono le "cose terribili che non attendevamo" (v. 64,2), tra le quali si ricorda in modo speciale la temibile discesa di Dio sul Sinai sconvolto.
Questo Dio, già una volta disceso, è invocato perché discenda ancora e si faccia presente con potenza per rovesciare l'oppressore. Il tiranno non è più qui un altro popolo, quanto l'iniquità, al cui potere distruttivo il popolo è consegnato o, secondo un'altra possibile lettura, che lo consuma, lo "squaglia" (v. 64,7). Il cielo! Che Dio scavalchi quella barriera insormontabile per l'uomo, e scenda sulla terra a liberare! La preghiera chiede dunque un reciproco avvicinamento: Dio e l'uomo si avvicinino l'uno all'altro! Dio ritorni verso il suo popolo; ma, certo, egli va incontro a chi non erra più lontano da lui e si riscuote dall'oblio per ricordarsi di lui (vv. 63,17; 64,4).
Collocata dalla liturgia nel tempo di avvento, questa preghiera ci rammenta il movimento di Dio che supera le distanze e continuamente viene nel mondo umano; movimento che ci chiede apertura, disposizione a cambiare rotta per andare a nostra volta incontro al Signore che viene. Il profeta ci rammenta che l'iniquità si autodissolve, e spinge a un esame di coscienza, volto a riconoscere nella nostra condotta i segni di quella inconsistenza. Ma ci chiede anche il coraggio della fiducia e dell'invocazione: "Vieni, Signore Gesù!". In fondo il nucleo generatore di questa preghiera sta proprio qui; perché senza la prospettiva della calda paternità di Dio non si può accettare di prendere atto del proprio peccato; e quando lo si facesse, si piomberebbe nella depressione.

I commenti di don Marco sono pubblicati dal Centro Editoriale Dehoniano - EDB nel libro Stabile come il cielo.