Omelia (19-08-2007)
don Marco Pratesi
Uomo di contrasto

La prima lettura ci presenta un momento drammatico del difficile ministero di Geremia. Gerusalemme è assediata dalle truppe di Nabucodonosor, re di Babilonia. In città scarseggiano i beni di prima necessità, si tenta di resistere a oltranza, sperando magari in un intervento divino, come altre volte è avvenuto. In questa situazione Geremia, già detenuto a motivo dei suoi annunzi di rovina, continua a proclamare: "Dice il Signore: 'Chi rimane in questa città morirà di spada, di fame e di peste, mentre chi passerà ai Caldei [i babilonesi] vivrà'" (Ger 38,2).
È annunzio fondamentale nel ministero di Geremia, anche se non unico, sia prima che dopo la caduta di Gerusalemme: Babilonia è strumento dell'ira di Dio contro Israele; è quindi opportuno non resistere ad ogni costo, cosa che avrebbe il solo effetto di peggiorare la situazione.
Geremia è posto come profeta in Israele nel momento in cui i suoi nemici devono prevalere, per testimoniare che, anche in quel momento, la storia è condotta da Dio. Altrimenti, di fronte alla sconfitta, Israele avrebbe dovuto necessariamente concludere che Dio lo aveva abbandonato, oppure che egli era stato vinto dagli dèi di Babilonia. Geremia sta lì a mostrare che invece quanto accade è volontà di Dio.
Compito quanto mai ingrato, e l'episodio della cisterna ne è chiara illustrazione. I capi d'Israele che vanno dal re Sedecia a chiedere la morte del profeta sono ben convinti di conoscere quale sia "il benessere (shalom) del popolo". Non si pongono nemmeno il problema di quale possa essere il piano di Dio, lo sanno già in partenza: resistere, continuare a lottare fino all'ultimo. Così, in nome delle proprie visuali acriticamente assunte, resistono al piano di Dio, causando ulteriore rovina a sé e al popolo. Per essi, fiduciosi nell'incrollabilità della dinastia davidica e del tempio, è facilissimo vedere nelle parole di Geremia un'offesa alla nazione e alla parola stessa di Dio. Così il profeta si trova posto al centro della lotta, tanto da potersi definire "uomo di contesa per tutto il paese", e aggiunge: "Non ho preso prestiti, non ho prestato a nessuno, eppure tutti mi maledicono" (Ger 15,10).
Assistiamo al paradosso che sarà anche di Gesù: la parola di Dio suscita contrasto. "Non sono venuto a portare la pace sulla terra, ma la divisione" (Vangelo). Tema scottante oggi, quando le religioni, e specialmente i monoteismi, sono accusati di fomentare divisioni e guerre. Si dovrebbe perciò accantonare le religioni, o almeno ridurle a elemento funzionale a pace e tolleranza universali, eliminando in esse tutto ciò che potrebbe indurre conflitti.
Per il cristiano questa strada non è percorribile. Se i profeti, compreso il più grande tra loro che è Gesù di Nazaret, hanno suscitato divisione, un cristiano che realizzi una "pace universale" è soltanto sale che ha perso sapore. Una tale impresa sarebbe possibile solo espellendo dalla storia la presenza attiva di Dio, e costruendo una religione funzionale alle varie ed effimere visuali del "benessere" umano. Tanti vogliono insegnarci qual è il vero bene dell'umanità: per non creare tensioni, dovremmo negare proprio a Dio la possibilità di dire una parola in merito.
Certo, il conflitto non deve significare guerra, violenza. L'umanità - credente o meno - deve imparare a vivere il conflitto evitando di risolverlo sia con la violenza (di ogni tipo), sia con la rimozione forzata del conflitto (che è di nuovo violenza: il conflitto non deve esistere). Gesù, come Geremia, subisce la violenza, non la fa: sua unica arma è la spada affilata della Parola.

I commenti di don Marco sono pubblicati dal Centro Editoriale Dehoniano - EDB nel libro Stabile come il cielo.